Ci facciamo le spine migliori con spavalda tristezza,
alle cose inutili in penombra offriamo altrettante imprecazioni.
Ogni tanto è strana voglia di libri, di verità pronte da asporto,
ad affogare dentro silenzi dove non saprebbero mai nuotare.
In realtà vero terrore è quello delle sei del mattino,
quando la primavera si mozza sotto il telefono della doccia.
Abbiamo tutti qualche buon numero in agenda e donne imbastite.
Vite di lavoro il cui ricavato suona, ma dà sempre occupato.
Comporre una poesia, mentre in Slovenia le piantagioni di luppolo
sembrano non finire mai, i Romani non essersene mai andati.
Quanti inverni passano senza lasciare nemmeno un biglietto!
La birreria delle cose chiude, presenta il conto, non dà resto.
Sbarcano barbari con passo di felpa,
li trovi ovunque a buon prezzo.
Il vecchio sa di dov’è.
Il giovane non sa dove va.
Parlammo a sproposito di lettere:
le monete caddero non si sa dove
tutte in successione, testa, croce.
Noi altrove, infreddoliti e scossi,
senza trovarle.
Il sogno americano scavallò lucido
aree di sepolcri imbiancati
dentro giardini ornati a maggio. Poi fai l’amore, scalci,
appena sfiorata di brezza.
In principio fu Gregor Samsa
poi la metamorfosi, ricordi?
La bonaccia d’Agosto doppiò dicembre,
le sedie fuori stremate di brine.
La noia al governo ci sapeva fare.
Questi barbari non sono Brenno,
non aspettano, sanno procurarsi.
Mentre scriviamo nessuno legge,
già detto tutto:
emozione perfida in chi non può
rinunciare nemmeno a un quarto d’ora.
Ogni giorno uguale e perso;
dragoni sbalzati da cavallo
in quadrato attorno
un pezzetto di territorio
senz’acqua o sali,
niente erba, niente donne.
Puntano decisi le armi
all’approssimarsi del nemico.
Non avrebbero pace anche se
uno solo violasse il perimetro:
lo difenderanno da eroi
fino all’ultimo uomo.
Quando la città retta a democrazia si ubriaca di libertà confondendola con la licenza, con l’aiuto di cattivi coppieri costretti a comprarsi l’immunità con dosi sempre massicce d’indulgenza verso ogni sorta di illegalità e di soperchieria; quando questa città si copre di fango accettando di farsi serva di uomini di fango per potere continuare a vivere e ad ingrassare nel fango; quando il padre si abbassa al livello del figlio e si mette, bamboleggiando, a copiarlo perché ha paura del figlio; quando il figlio si mette alla pari del padre e, lungi da rispettarlo, impara a disprezzarlo per la sua pavidità; quando il cittadino accetta che, di dovunque venga, chiunque gli capiti in casa, possa acquistarvi gli stessi diritti di chi l’ha costruita e ci è nato; quando i capi tollerano tutto questo per guadagnare voti e consensi in nome di una libertà che divora e corrompe ogni regola ed ordine; c’è da meravigliarsi che l’arbitrio si estenda a tutto e che dappertutto nasca l’anarchia e penetri nelle dimore private e perfino nelle stalle?
In un ambiente siffatto, in cui il maestro teme ed adula gli scolari e gli scolari non tengono in alcun conto i maestri; in cui tutto si mescola e si confonde; in cui chi comanda finge, per comandare sempre di più, di mettersi al servizio di chi è comandato e ne lusinga, per sfruttarli, tutti i vizi; in cui i rapporti tra gli uni e gli altri sono regolati soltanto dalle reciproche convenienze nelle reciproche tolleranze; in cui la demagogia dell’uguaglianza rende impraticabile qualsiasi selezione, ed anzi costringe tutti a misurare il passo delle gambe su chi le ha più corte; in cui l’unico rimedio contro il favoritismo consiste nella molteplicità e moltiplicazione dei favori; in cui tutto è concesso a tutti in modo che tutti ne diventino complici; in un ambiente siffatto, quando raggiunge il culmine dell’anarchia e nessuno è più sicuro di nulla e nessuno è più padrone di qualcosa perché tutti lo sono, anche del suo letto e della sua madia a parità di diritti con lui e i rifiuti si ammonticchiano per le strade perché nessuno può comandare a nessuno di sgombrarli; in un ambiente siffatto, dico, pensi tu che il cittadino accorrerebbe a difendere la libertà, quella libertà, dal pericolo dell’autoritarismo?
Ecco, secondo me, come nascono le dittature.
Esse hanno due madri.
Una è l’oligarchia quando degenera, per le sue lotte interne, in satrapia.
L’altra è la democrazia quando, per sete di libertà e per l’inettitudine dei suoi capi,
precipita nella corruzione e nella paralisi.
Allora la gente si separa da coloro cui fa la colpa di averla condotta a tale disastro e si prepara a rinnegarla prima coi sarcasmi, poi con la violenza che della dittatura è
pronuba e levatrice.
Così la democrazia muore: per abuso di se stessa.
E prima che nel sangue, nel ridicolo .
tanto sudore e sangue
da carni stracciate e spine,
non rose di amanti
quelle dei Romani,
che non si capisce ancora
dopo tanto aceto,
come mai Cristo abbia permesso
i cristiani, a dividersi
ad ammazzare aztechi, africani,
asiatici, per un po’ di profitto
e qualche ostensorio d’oro in più
nella cattedrale di Toledo,
creano santi e danno scandalo,
cristiani mai disposti a lavarsi
e nemmeno i pesci di profondità
sono al sicuro:
usurai di cristiani,
fedifraghi, nazisti,
predicatori nel caso
l’onorario fosse buono,
che ancora impestano chiese,
scrivono libri,
dispensano verbi senza verità, no
non mi è dato capire come mai
Cristo si sia sbattuto così
per creare i cristiani;
lo so, cuore mio,
faccio teologie da quattro soldi,
lasciami dire, tanto
la mia voce scavalca recinti
per spegnersi alla prima buca
Fottiti deserto rosso,
non abbiamo più comunisti a pagarli oro
su Marte vita non c’è, specie
dopo le Ventuno,
dove siano tutti è meglio chiedere
alle luci accese
ai fornitori di telefonia:
siamo così, universi dispersi,
tutti diversi tutti uguali,
chi si crede unico batta la fronte
contro finestre chiuse
più dure di chiunque.
Lasciate le accuse nell’apposita
cassetta; giuro però nel Trentanove
in Polonia non c’ero,
nemmeno ho fornito i sacchetti
ai Killing Fields, sono stanco,
Marte non è poi così lontano,
alza i tappeti, soffia via
il pantano di polvere rossa là sotto
non si sa, maledizione
come abbia potuto entrare.
Fatti sentire domani, 21887,
tra urla e vomito incontrollabili:
sì, nemmeno un bacio, dormi, dormi,
sei qui per sognare,
questione di principio.
Casomai, sul Delta forse,
avremmo trovato in tanta palude
una bella casetta di legno,
distillato acquacalda illegale, ogni giorno ci scalderà. pensavo
l’imperativo imperfetto
del verbo Amare muore
della stessa fiamma
allontanate tutte le zanzare,
ci saremmo amati dove per sempre,
quando avevi la metà
dei tuoi anni anche meno.
Imitando ritorni e partenze
della risacca, lontano dal mare
e con molta vertigine,
specie durante le piogge
questa notte, Signora,
debbo averti torto un capello
a tal punto che,
nei giorni a venire,
attenderò chiuso in casa, tornare
l’onda violenta,
in compagnia del coltello
conficcato sul dorso
A Luca penso ogni giorno.
Anche adesso
di lui non ricordo una parola.
Sarà per via di quest’aria,
la peggiore al mondo,
rende pazzi.
L’acqua è tutta sporca, come me,
dici tu dei poeti morti
prima di pensare.
Siamo aborti.
Spaventati da tutto,
incapaci di ogni cosa, anche
di saper dire.
Pensandoci,
non c’è mai stato nemmeno un bacio.
Riscattaci ballando.