Gioielli Rubati 46: Yves Bergeret – Bruno Navoni – Giovanni Baldaccini – Anna Leone – Stefanie Golisch – Lapoetessarossa – Mariangela Ruggiu – Roberta Panizza.

CANTO DI BANCHISA

Gelide sono le acque.
Un uomo, solo nel suo kayak,
a caccia di foche, a pesca
pagaia tra muraglie di ghiaccio galleggianti.
Una parete incolore è l’omicidio,
un’altra il razzismo, un’altra l’odio,
un’altra è il moncone residuo
della lingua strappata dalla bocca
di un qualche eroe fondatore
diventato un incomprensibile balbuziente.

Il solitario in kayak deve vogare con grande fermezza.
Venti e correnti spingono gli uni contro gli altri
gli iceberg. Tutto ciò che naviga tra di loro
può essere annientato.
Dieci anni fa, l’uomo solo nel suo kayak
ha perso una gamba, maciullata,
divorata dai narvali.

No, non è lui, il solitario nel suo kayak,
ad aver perso la lingua.
Sì, è un uomo con una gamba sola.
Sì, nel vento che lo sovrasta
galleggia la sua testa, faro nell’imprevedibile,
tiepida nella tormenta di neve.

Egli vede la sua testa fluttuare lassù,
tendere gonfia ancora più in alto,
elevarsi là dove l’aria non gelida
è l’audacia di lontani mondi umani,
quelli dove si parla senza gridare,
quelli dove si ascolta senza sbraitare.

La sua testa là in alto si gonfia, calda,
trascinando con forza il suo kayak,
spingendolo alla velocità della vita,
la sua testa, emisfero libero dai tenui colori
che disegna mentre sale,
che dà forma salendo
al lungo filo flessibile o ruvido
creato dal canto della
voce profonda della donna coreana.

Anche noi potremmo seguire il filo scuro
di quel canto, dimenticare per sempre
quello delle sirene, seguire il filo,
poi srotolare il filo.

di Yves Bergeret, qui:
https://rebstein.wordpress.com/2019/06/20/canto-di-banchisa/

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NON GUARDI MAI

Non guardi mai quando mi vesto
non guardi nemmeno quando mi spoglio
non guardi…

hai detto poi: ma mi ami?

sì…non guardo perché ti amo
non guardo perché potrei morire
e se proprio lo vuoi sapere

sapere cosa?

sapere, eh, che cazzo…sapere…
questa sera non smetterei di telefonarti
questa sera non smetterei di leccartela
questa sera non smetterei di venderti

…beh, ti va bene, perché mi ci vorrebbero troppe sere

di Bruno Navoni, qui:
https://brunonavoni.wordpress.com/2019/02/12/non-guardi-mai/

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LA CASA TRA I BINARI

Caterina sognava di partire.
Io non l’ho conosciuta ma ne parlo
come se avessi visto la sua vita
quando prendeva il treno che restava
ma muoveva le ciglia
ed io vedevo l’oro e campi gialli
e l’aria che sentiva
vuota di cose e densa di calore
gli uccelli che calavano dal sole
il falco in alto
mosso dal suo vento
e muoveva i capelli Caterina
che non aveva un fazzoletto in testa
raccolta dietro un finestrino chiuso
e il paese
quando scendeva senza andare via
e case grigie viottoli di sassi
passi
le strade che saliva
e scendeva la madre
e le parole i nomi
Caterina odorava di qualcosa
che non conosco e i fiori sul balcone
dentro vasi di latta e paglia a terra
forse sentivo il peso della terra
quando lei ritornava sul sedile
da cui non s’era mossa e non guardava
oltre di là distante…

di Giovanni Baldaccini, qui:
https://scrivereperimmagini.wordpress.com/2019/06/01/la-casa-tra-i-binari/

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Radici (a Michele)

Tutte le parole che hai imparato,
ora, non le riconosci,
se ti parlo e non rispondi,
se ti chiamo in sogno e non vieni

Muove silenzio lo sperpero, ma, ancora, l’orecchio
non è allenato agli immani alfabeti dei morti.

Vienimi, se puoi,
dimmelo, come sai,
che hai spalancato radici all’unico Cielo possibile,
ma una, per attestata osmosi,
ti travasa ancora.

Come quando, a fianco,
una inconsapevole
consapevolezza.

*

PETITESSE

Nel paese delle pere mature gli uomini
si chiamavano Fritz e Heini, le donne tutte
Elsie. I cani li chiamavano gatto e i gatti
cane, non si sapeva perché, ma era sempre
stato così. Quando bevevano, facevano bere
gli animali insieme a loro e alla fine, nessuno
si ricordava più nulla. Si moriva piuttosto
giovani, ma sereni. La vita era stata tanto
leggera, perché la morte avrebbe dovuto
essere diversamente?

di Stefanie Golisch, inedita su web.
Ringrazio l’autrice per il suo saluto estivo.

*

POESIA PER CHI NON CAPISCE LA POESIA

Metto in fila parole in modo irresponsabile
come una lista della spesa per non dimenticare
la pasta i biscotti il sapone un etto di prosciutto.
Tu le leggi mentre guidi contro mano
sgranocchiando i biscotti a forma di cuore.
La poesia percorre il senso vietato della vita.
All’inizio trovi un cartello: io non posso entrare
e sorridi perché non conosci un cane che legge le poesie.
Mi impari a memoria per non sbagliare strada.
Ci sono i lavori in corso
spezzano l’ultima rima e ti perdi
nel dedalo delle allitterazioni.
Ti ritrovi all’angolo di via Tasso con via Leopardi
e ti domandi come mai gli animali abbondino tra i poeti.
Il verso del tasso ti ha sempre incuriosito.
Il finale del componimento ti lascia perplesso:
è una strada senza uscita.

di lapoetessarossa, qui:

POESIA PER CHI NON CAPISCE LA POESIA

*

io danzerò come la polvere

quando incontra un raggio di luce

danzerò con me sul filo del tempo
e porterò sorridendo
questo corpo stanco tra le mani

danzerò
dentro gli occhi come la pioggia
scorrerò danzando come le lacrime

tu non dirmi che ho gli occhi ciechi
che non vedo il brutto del mondo, il suo male
danzerò anche sul fuoco della guerra
sul filo delle lame
sullo scintillio del sangue

danzerò sul tuo pianto

nella cenere che resta, danzerò
sopra il fumo, con piedi di paura danzerò

e invocherò, madre del dolore,
apri le tue mani, lascia libere le parole
dimmi che mi ami

ed io danzerò per te
sulle tue parole d’amore

danzerò con te

di Mariangela Ruggiu, qui:
https://giardinodeipoeti.wordpress.com/2019/06/23/mariangela-ruggiu/

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Per sempre

In soliloquio d’orbite
ci cattura il nostro sole
e vaghiamo
nella profonda quiete del noi.

Altri pianeti percorrono
il grande cielo mascherato d’eterno
e silenzioso
ma noi disconosciamo il tempo
intrecciando nel rotondo danzare
le nostre aritmiche melodie.

Pulviscoli di solitudine
– orfani di proprie gravità –
superano accanto bisbigliando
le loro scandalose profezie.

di Roberta Panizza, qui:

Fai clic per accedere a 2011_07_21_antonio_mencarini_traduce_per_sempre_di_roberta_panizza.pdf

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Canzoni di calcio e calciatori

(Ligabue, Una vita da mediano – 1999)

(Diaframma, Portiere – 1990) La presenza di quel mona di Buffon nel video è puramente casuale

(You’ll never walk alone – Inno tifosi Liverpool – orig. Gerry and The Pacemakers – 1963)

(Roberto Vecchioni, Luci a San Siro – 1971)

DA INTERISTA SONO CAPZIOSO E DI PARTE, VOI AVETE QUALCHE BRANO INDIMENTICABILE?

Giornata di vigilia

Giornata di vigilia,
obblighi di pane e mattina
sorridendo, suoni d’argento.
Manchino pure le rondini,
sono distanti anch’esse,
ma ci sei tu.

Amore non è plenilunio rosa,
tranne giornate come questa,
in eccesso d’iperboli
a definire bellezza, oltre l’oggi
altro futuro.

Quando mi racconti la tua vita,
io la mia,
libellula sudata,
vibrano le ali
sul mio cuore.

Ci si incontra e scontra
sui condizionali,
nei caffè con poco zucchero.
Ti voglio con semplicità,
sono seduto, scrivo.
Penso a te.

segni

segni, sulla pelle,
sulle spalle, segni dentro,
sono infiniti:
morto illogico
il destino va, e viene

copre in verde
i cavi delle centrali elettriche
durante tutto
lo straordinario piattume
di verità e rigetto

il rigore viene battuto
in area di calcolo,
l’area piccola è stretta
là non si respira,
non si parla più

ho un sacco di problemi,
tu sei la mia transenna.

il treno, boccone bloccato,
voleva lasciare i deportati
in partenza

carriera postuma (feat. Piero Ciampi)

Pensava poco alla discografia,
qualche titolo rarefatto nel tempo,
altrettanti pezzi, nessun successo:
nato per essere postumo.

Poesie divulgate per amore
da un amico, altre su fazzoletti,
ricordi, spacciati per reliquie,
di un uomo dentro il suo frigo.

Bellissima e delicata,
tra mandorle di pianto
e noccioli di frutta, la sua vita
non sarebbe mai stata espiazione.

A noi generalmente bastano
poche intramuscolo
di cattiva poesia.
A lui bastavano gli anticipi.

Barbara?
Mai saputo dove fosse andata.
Sempre presente è
la sua assenza.

Il non detto

avvinghiati, nessuna pietà,
afferrano per i capelli
e mordono
con materna ferocia
di felino coi cuccioli.
assaggiano sangue
sporco di semi e terra

continua la zuffa
senza perdente o vincitore,
entrambi sanno:
uno di loro,
senza misericordia,
morirà, insepolto
entro luoghi abbandonati

l’uomo diavolo cerca moglie,
ma il dolore chiude
una a una tutte mille
le porte,
il non detto
arrugginisce in serrature
fatte di sgomento

c’è Dio dietro i cancelli,
gli orologi fermi,
i terremoti, la fame,
la violenza di un mattino
battente di pioggia,
non so chi sia
preferisco pensarlo dio

dopo tanto strazio,
l’unico superstite,
perché cantare una rosa
quando posso divorarne mille?

Vorrei un verso,
scriverne uno solo,
capace di contarle tutte

Ascolta e leggi: … a proposito di culo (con Diaframma, Carlos Drummond De Andrade, Franz Krauspenhaar)

IL CULO, CHE MERAVIGLIA

Il culo, che meraviglia.
E’ tutto un sorriso, non é mai tragico.

Non gli importa cosa c’é
sul davanti del corpo. Il culo si basta.
Esiste dell’altro? Chissà, forse i seni.
Mah! – sussurra il culo – quei marmocchi
ne hanno ancora di cose da imparare.

Il culo sono due lune gemelle
in tondo dondolio. Va da solo
con cadenza elegante, nel miracolo
d’essere due in uno, pienamente.

Il culo si diverte
per conto suo. E ama.
A letto si agita. Montagne
s’innalzano, scendono. Onde che battono
su una spiaggia infinita.

Eccolo che sorride il culo. E’ felice
nella carezza di essere e ondeggiare.
Sfere armoniose sul caos.

Il culo é il culo,
fuori misura.

di Carlos Drummond De Andrade

*

LA POESIA E’ UN CULO

La poesia è un culo.
Un semicerchio attorno alla cravatta del signore
giovedi, al centro, che ha finito di scavarsi i vermi
dal culo.

La poesia è un culo. I vermi si staccano, arbitrari
pensieri che prevendono parole silenziose,
alberi dove soffrire mentre la nostra morte
attira i vermi. Nel culo. Anche nel culo depositano
i vermi le ali delle loro fatiche, la bellezza strana
del definirsi per un povero privo, avio, avioprivo,
come fosse saltato su una mina, al vecchio formicaio.

E la poesia, soprattutto negl’istanti cucinati,
e la ventola spaccata e l’odore delle mense
degli ospedali che spiccano voli derratici:
ebbene, lì la poesia è un culo. Che fa rumore
sul cesso e che si bagna in un bidet stanco
ma levigato, prima di salire il nostro culo su,
alla vestizione della nostra giornata.

E la poesia è sempre più un culo, sempre più
essa viene coperta dai vestiti, dalle fodere
che ci fanno civili, timorati, cittadini onorati.
E’ come un morbo, perversione rattusa;
e più il culo è coperto da pantaloni e gonne
e jeans e tute ginnastiche, più è poetico.

Il viaggio del culo da una quasi prosa alla poesia
è compiuto soprattutto sui tram. Nelle nostre
malsane voglie di misurare tutto, stabiliamo
metri e misure con la strettezza del tessuto,
l’aderenza sul culo. La poesia più alta si rileva
in un culo femminile pieno di tonda grazia
preso a sé, come in abbraccio, da stoffa di seta.

di Franz Krauspenhaar

*