fotomodella

Ferrara è bellissima, una fotomodella,
ripensando qualcuno che non c’è
passeremmo insieme un pomeriggio raro
da non finire mai.

Ha tre quattro punti conturbanti
nel proprio corpo arredo urbano.
Ogni anno passa dalle nebbie all’afa
senza soluzione di continuità:
sua è la stazione
dove non si vorrebbe mai scendere.

Ricorda alcune belle donne passate di qui,
corpo splendido, naso adunco;
l’attimo non sempre è stato felice.
Cifre del cuore non troppo manierate
e la nuca quotata in borsa.

panoramica dentale della Bestia

tempo di sasso e sapore acqueo,
miliardi di margherite immolate
a passeggiatori silenziosi,
tutto è fuori luogo:
niente città, ma non è ancora foresta
ombre lunghe di un male necessario

questurini di legno
ovunque si trovino, sono banchine,
coi loro tarli e l’uniforme,
tratti antropologici
di tanto errore e scriverne,
appartarsi col proprio biasimo

durante un’improvvisa burrasca,
magari è solamente
un condizionatore disperato
tutto intento a piangere,
spesso trova rifugio
nella panoramica dentale della Bestia

si scompone molto più
chi resta seduto sui marciapiedi
ad aspettare che passi:
non l’indurre in tentazione
sia un eterno riposo, basta

LOmbra delle Pinzillacchere: Lucio Mayoor Tosi quaquaraquà per sua stessa ammissione

Come bel sapete, prassi consolidata, l’ambiente poetico sconta da sempre la metastasi dell’adulazione e dell’insincerità. Ve ne do un bell’esempio che sia di monito a tutti: ti do una buona recensione in cambio di una buona recensione. Voglio fare l’esempio con nome e cognome: Lucio Tosi detto Mayoor, alfiere e bidello di una delle tante sedicenti avanguardie polverose qua e là in giro:

scriveva poco più di due anni fa, commentando Caleranno i Vandali sull’ Ombra delle Pinzillacchere

Lucio Mayoor Tosi
26 maggio 2016 alle 22:21
Il discepolo:
– Alla poesia “Storie per adulti”, d’improvviso mi sono visto seduto alla veranda di un bar di Rimini: c’era luna piena, io l’ascoltavo volentieri ma senza sforzarmi troppo; a tratti pensando divertito che stesse parlando a vanvera.
Quindi mi sono sentito rilassato.
Il maestro:
Penso sinceramente che il poeta Almerighi sia a un passo dall’essere tra i migliori nella poesia moderna italiana. Purché se ne tenga stilisticamente alla larga, come non mi sembra stia ancora facendo del tutto. Per il resto scriva quel che gli pare, mal che vada darebbe una bella lezione di libertà a tutti quanti.
Buon lavoro.

Rispondi

Oggi sono andato sul suo blog a leggerlo, ho trovato un pezzo di una bruttezza straordinaria:

In soffitta.
di Lucio Mayoor Tosi

Note musicali come specchietti
con dentro abitazioni sconosciute.

Pausa di neve che si scioglie.
Kandinsky.

Una donna si volta a guardarmi
reggendo stretti due rami da bruciare.

Un bambino mette alla finestra
la sua piantina secca. Ha le mani sporche
di inchiostro.

Dove andiamo con la slitta?
Parla. O preferisci una cedrata.
Il topo con la coda vestita.

Il pittore ritrae se stesso
mentre dipinge una cavolata.

Il pianista passa con l’aratro sul tappeto.
Un delfino esce dall’acqua per guardare le cime innevate.

Molte strade troppo lunghe da percorrere
e filo spinato.

e l’ho commentato così:

2 commenti to “In soffitta.”

almerighi 28 giugno 2018 alle 2:08 pm
brano di singolare bruttezza

Mi piace

La risposta piccata da bimbetto invecchiato male non ha tardato a venire:

RISPONDI
Lucio Mayoor Tosi 28 giugno 2018 alle 3:12 pm
Tu non sei più benvenuto in questo blog.
Specie se continui a pontificare coi tuoi giudizi. Ma come ti è venuto in mente di pensarti chissà chi?
A me le cose che scrivi non sono mai piaciute, mi sforzavo per amicizia e per incoraggiarti. Ora che potrei dirtelo con franchezza, sono tanto gentile da non scrivere sulle tue pagine. Ah, non ti passerà mai l’offesa… Guardati dall’ego, se ti resta un briciolo di intelligenza per capirlo.

Mi piace

RISPONDI

(dopo di che mi ha messo in spam)

Poverino come deve aver sofferto nei panni del leccaculo, ma adesso è libero, può dire quello che pensa davvero. Più che ontologia è uno dei tanto che avrebbe bisogno di un po’ di etica oltre che di talento. Tosi, passata da tempo la sessantina si inizia a diventare vecchi e saggi, tu sei ancora nell’età della crescita e della formazione: sei veramente un grande. Ti sorrido sincero.

letture amArgine: da Marina Marchesiello, poesie inedite

Andartene tu dietro il cellophane
della notte piovosa
Andartene tu, incessante
ombra d’albero assetato.
Con le tue piccole mani, piccoli ramoscelli dalle nocchie nodose
abbracciate ad un anello di promessa infinita
e dolorosa prigione di non saperle muovere lontano
Ogni tanto mentre tu vai
io il tuo modo di stare ricordo
E ti ti rivedo lungo le antenne sui tetti
a cercare in preghiera i segnali
di nuove presenze
Andartene tu, andarmene io
Pure dovevamo saperlo
Che una certa idea d’amore ha sempre
la caduta in dissolvenza
di un acquazzone
alla sua necessaria e fangosa fine

*

Ho seni piccoli da ancella
senza eucaristia
e cosce grosse da giumenta
non addomesticata,
braccia lungo i santi che mi dolgono
e occhi affezionati al molto lontano.
Ho quello che mi serve,
per sopravvivere
ai minimi mutamenti della terra e del cielo. Non so chi erano gli altri
che volevano cambiarmi,
non amo chiedere i danni per sospetti imprigionati.
Ho la pace di un cuore controtempo,
se voglio,
abituato al contocanto del ricordo.
Credo alle luci che spariscono in curva,
e alle ombre che appaiono sul rettilineo
col proprio appuntamento.
Vogliatemi bene come si fa coi bambini,
a cui si perdonano i piccoli omicidi d’amore, i disconoscimenti dei corpi senza reato,
pensati in quel momento di sgomento adulto
che accade poco prima
di chiudere gli occhi sotto i cuscini.

*

Madre conservami le parole dentro
la tasca sacra dove hai sempre un testo vuoto per spiegare tutto
Madre contienimi la paura di non sapermi davvero guardare indietro
mentre tu piangi ed io non so come farti andare avanti
Sono sempre io
La stessa bambina con il viso felice
nascosto dal tuo velo
Non so perché per sopravvivere ho imparato tutta sola a far uso della rima
che più presto ci avvicinava
ad un’idea di cielo

Anche questo un incontro molto casuale da navigazione in rete. L’ho trovata sufficientemente pronta a sostenere l’urto di una lettura prolungata e pubblica. Mi scrive l’interessata:
Sono nata a Salerno, e per questo sono stata fortunata. La nascita è stata giusta : è avvenuta in una città del sud e poco lontano da Napoli. Sono tre cose che per me vanno benissimo: il sud, il mare e Napoli. Poi mi va bene anche il nome, Marina. Il mare mi accompagna perfettamente:così acquoso, silenzioso, misterioso ma anche tanto amoroso, come una grande madre che sfama tutti. Con la Sua bellezza che va e ritorna. Ed io della bellezza non posso fare a meno.
Se la bellezza mi stancherà vorrà dire che sarò morta, o quasi . E tutto ciò che è stato, per me, nel mio costante accarezzare la nostalgia, deve diventare bello. Anche la mia insolita infanzia, a ripensarci adesso. Avere genitori particolari, speciali nel bene e nel male, ti fa faticare un po’ più a crescere. E così ho deciso: io non cresco mai. Cresco quel tanto che basta per arrivare (ma no, che non ci arrivo) a capire la mia nemica giurata: la morte. Anche per combatterla ci scrivo delle poesie, le scrivo dai primi anni del liceo; mi nascondo seduta sotto un ultimo banco vicino ad una finestra. Da lì guardo tutta la gente che arranca a vivere per le strade del mondo (magari neanche se ne accorge) e la gente (ma magari neanche ci pensa) e tutto quello che prima o poi morirà e chissà come farà a lasciare almeno una traccia in giusta memoria. La professoressa mi lascia fare. Mi chiama la sua piccola poetessa. Anche mio padre mi chiama così.
Anche se non pubblico nulla, questo mi può bastare. Ho tutti i miei fedeli lettori che si scambiano i miei fogli. Ci emozioniamo insieme, quanto mi piace.
Succede anche con i miei bambini.
Sto bene con i bambini, sto bene con i miei due bambini: Leonardo ed Eva.
Dopo essermi laureata in lettere moderne mi sono trasferita a Roma, città dove vivo attualmente. Qui ho iniziato anche a lavorare come copywriter in diverse agenzie di comunicazione, (tanto per utilizzare questo bisogno impellente di scrivere e cercare di guadagnarci anche il pane)
Scrivevo piccole favole per miei coetanei e poi raccolte di racconti brevi su riviste locali) ho fatto la pubblicista per un quotidiano on line, sperimentato, come attrice, il cinema e il teatro (tuttora faccio parte di un bel gruppo appartenente ad una scuola molto valevole e molto attenta alla “poesia del sentire” “Il Cineteatro”). Ma prima di venire a Roma il mio primo impegno “professionale” è stato in Radio. Già quindicenne facevo la speaker per una radio locale; la musica è un’altra mia grande fonte di vita e bellezza.
La poesia e la musica, chi potrebbe mai dividerle. E così che mi arrivano le parole. Da sempre. Sono note che mi arrivano da molto lontano. E ancora devo scoprire chi a suggerirmele. E dove e come vive. Io so però che grazie a quella voce musicale che vuole che io scriva, ovunque e in qualunque momento della mia storia io
mi trovi,riesco meglio a dare un senso a questa vita. Voglio che questa voce continui a dettarmi le parole ( so anche come meglio mettermi perché lei arrivi con la sua musica e il sangue che si sente scorrere meglio) allora, io poi potrò sbagliare (io che di regole non ne ho e non ne seguo) ma io di meglio, per vivere, non posso sentire.
Così scrivo dentro il mio Vivo.

Buona lettura, per me lo è stata.

qui si balla soli

abbracciati ratti, gatti,
ogni animale ha paura del freddo
del mare nemico delle luci assenti
attorno, e in petto una bocca sdentata
grida forte a morire sola
dove non si tocca,
ogni faro è spento, Ustica protomartire,
anche allora era morire soli
senza colpevoli,
la speranza un cristianismo vinto,
tutto l’infinito si burla di noi,
zuffa di opinioni confuse
la ragione è dalla parte del torto:
qui si balla soli

letture amArgine: Gabriele Galloni da In Che Luce Cadranno (RP Libri 2018)

Chiunque pensi che è giunto il momento di affrontare una prova editoriale, sa bene che ha deciso di mettersi in gioco e che ne raccoglierà oneri e onori. In che luce cadranno questi brevi tratti di poesia epigrammatica e aforistica è un’incognita cui non intendo rispondere, e tutto sommato non mi interessa. L’autore, Gabriele Galloni giunge alla sua seconda prova editoriale con pagine in cui parla dei morti. Morti con tante loro piccole idiosincrasie, morti come fossero vivi. L’argomento “morte” e “morti” in poesia è sempre stato trattato con sospetto, quasi con ansia. Poche volte col dovuto rispetto, che invece secondo me, Gabriele pone come condizione essenziale al suo lavoro. Si tratti di momenti più leggeri, si tratti di momenti più gravi: l’autore riesce tuttavia a porre tra lui e “loro” un ponte, il riconoscimento di un’umanità sopravvivente ai morti, la loro. Sotto questo punto di vista gli epigrammi appaiono spesso ben riusciti, altre volte con qualche scivolone, quel: I morti cagano, pisciano come/i vivi, personalmente lo avrei lasciato dentro la penna, ma è noto, semplice questione di punti di vista. Non mi interessa che si tratti di un giovane autore di belle speranze, e nemmeno che sia in formazione. Mi interessa quel che ho letto, mi interessano i momenti in cui in cui ho intravisto talento, mi interessa segnalarne anche le cadute di stile che posso avere trovato. L’unica vera attenzione che chiedo ora all’autore è quella di non prestarsi e non farsi travolgere da un mondo, quello dell’editoria specie poetica, che è un oceano di squali affamati. Inghiottono e sputano a loro piacimento, fanno personaggi da smontare e rimontare dal bimbo prodigio alla nonnina poetessa alla poetessa trans: gli autori non si prestino a impersonare animali da circo.
Il mio unico consiglio è quello di continuare a formarti, caro Gabriele, e di trovare la via di una maturità che esiste, ma non nelle anticamere di critici, editori e cosidetti poeti affermati, basta saperla trovare e percorrere. Ognuno ne ha una.
Leggiamo qualche estratto dal libro. (Flavio Almerighi)

Ho conosciuto un uomo che leggeva
la mano ai morti. Preferiva quelli
sotto i vent’anni; tutte le domeniche
nell’obitorio prediceva loro

le coordinate per un’altra vita.

*

Si parlava dei morti. Sulla tavola
i resti sparsi della cena – quelle
bistecche appena cotte. Il frigorifero

in dialogo amoroso con le stelle.

*

Nel sogno ci nascondevamo in fondo
alla navata di una chiesa. Insieme
cercavamo un accesso per la casa
dei morti.
Fuori tutto il mondo.

*

I morti cagano, pisciano come
i vivi. Solamente che faticano
a rispondere a tutte le domande

che gli vengono fatte. Preferiscono
ricordarsi di un nome,
scomporlo in sillabe, accorgersi che è il loro.

*

Ci basterebbe credere a una riva;
a una luce che vada scomparendo
dietro gli scogli; o che un morto riviva,

che si perda tornando.

*

I morti rientreranno nudi nelle
loro città. Li vestiremo appena
quel tanto a bastare che il freddo
non li atterrisca. Ci diranno zero.

*

I morti hanno fiducia nella sorte.
A notte fonda salgono sugli alberi
del tuo giardino; li trovi che all’alba
non sanno come scendere dai rami.
Li vedi; non ti vedono. Li chiami
e non ti sentono. Li aiuti – scendono.

Ogni notte ritornano e dimenticano.

*

Giorno di Marte; i morti si separano.

Ognuno va secondo un suo segreto
desiderio. Raccolti, i fiori, vengono

distribuiti ai passanti del caso.

***

memoriale apocrifo di un clandestino

Oggi è domenica,
una volta capitava di vestirmi meglio
mangiare la minestra;
oggi è pane e brace.

I soldi bastano appena per un treno:
la mia bimba non c’è più
domani compie gli anni,
prenderò il treno
terrò tutto per lei.
Vieni cane, fai gli occhi dolci
non ci sono soldi
per biglietti e museruola.

Voi curiosi indifferenti,
poeti del cazzo, cosa guardate?
Il copione è scritto.
Il capotreno chiamerà la polizia,
mi faranno risalire
per non tardare troppo, sono italiano.
Voi invece, senza speranza,
finirete tutti dimenticati a ingiallire
su bancarelle di quartiere
e nemmeno bene in vista.

Ad ogni buon conto mi specchio
negli occhi tristi del cane
prima che me lo portino via,
mi alleno a sorridere.
Arriverò con le tasche vuote,
niente resto,
quel regalo dovrò rubarlo:
se mi prendono
non ti potrò baciare figlia.

Una forcina caduta sul pavimento
è indifferente a chiunque la pesti,
ignara di essere dimenticata;
uno scossone. Arrivati.

letture amArgine: Maria Allo, pensieri feroci

La notte scivola a strappi dentro l’abbandono.
E’ scheggia di rovo ellissi di dolore
sulla dolcezza cancellata della memoria e nel presente
come il vuoto che ci attraversa tutti
in mille lingue dentro le acque sconsacrate
ai piedi del nostro ulivo che si lascia dire .
Che sia maledetto chi ha seminato il male
alla radice …

(Maria Allo tutti i diritti riservato all’autrice)

Senza più contorni invisibile
l’ombra di profilo si fonde col fuoco
plasma la distanza dei millenni
ma non c’è abbastanza luce
se cade fra gli alberi l’attesa
come gramigna nei bagliori
del crepuscolo morente.
Non c’è abbastanza luce ai lati della strada
e sempre tanta pioggia o gelo
in certi pomeriggi quando il cielo basso
strazia il peso delle nubi
mentre improvvisa la metafora cresce
nel fragore verticale in volo.
Scoppia e disarma a luce spenta
i dimenticati e i disperati
l’isola disabitata della memoria
così resta sotto le dita la pazienza di chi
non cerca e non aspetta niente
oltre la luce radente dell’esistere.

© Maria Allo

letture amArgine: poesie da L’Inganno della Rosa di Guido Caserza

Un tempo si sarebbe detto comunque vada, sarà un successo. E’ quello stesso successo che auguro a un poeta da poco conosciuto in rete, Guido Caserza, quei suoi versi particolarmente onesti hanno risvegliato la mia attenzione. Se poi andiamo a rileggere ci accorgiamo che oltre l’onestà nella capacità di scrittura, c’è una buona penna che sa dare, oltre a ottimi versi, suggestioni la cui eco restano dentro, e almeno per un po’risuonano. Non ci vogliono certo doti medianiche per comprendere l’attenta, tormentata, osservazione e l’ammirazione dell’autore per l’universo femminile, la rosa altro non è che questo. Almeno per i tre brani qui proposti da Caserza.
Le poesie sotto costituiscono l’anteprima di un volume ancora in fase di realizzazione: L’Inganno della Rosa per la Casa Editrice Dei Merangoli. Buona lettura.

1.

Come le rose a noi giungono i giorni
quando il respiro dimora fra labbra
prescelte e un petalo che si distacca
è la seta di un sogno che affiora.
Lo sguardo che questo comprende
sa che nulla succede tra un fiore
e l’altro: al terzo petalo
è già un sogno la vita
come le tue dita capricciose
che interrogavano la corolla,
fra un sì e un no
schernendo due petali alle labbra.

Un velo contro vento sono ora
i miei petali sulla tua bocca,
ma profondo come una rosa
è il cuore che ti cade innanzi
nel segreto viavai dei giorni.

Come le rose a noi giungono giorni
dai minimi battiti e alle feste di maggio
andiamo a piedi incauti sulla via del ritorno:
il volto che questo comprende sa
che più dolce metro non esiste
se nel tuo appassire un’altra rosa vive.
Nulla succede tra un petalo e l’altro,
ma soave nel sole va colui che ti ama
se verso di lui tu sola
tessi i tuoi raggi segugi.

L’ultimo dei giorni che muove muti sospiri
è il più bugiardo dei giorni, il grigiovestito
con le sue pasticche di sonno
e cento petali sull’ombra più densa.

Come le rose a noi giungono giorni
dalle cui guance nulla compiange
il distacco di un petalo,
affinché un solo petalo sveli
l’inganno della rosa.
Più soave mi sarà allora baciarti
nel fatale dei giorni quando,
tornati alla tua bocca, i petali
come lustri moscerini
danzeranno la loro marcetta,
ma più dolce ancora mi sarà perdere i tuoi baci
se la morte, più ricca di me,
non smetterà di baciarti,
mentre le rose, staranno le rose
aggrappate ai tralci.

2.

Rosa delle rose tu sei:
in te è il terrore dei petali
se così tu vieni, coi piccoli
fianchi in fiore, nuda
oltre ogni barriera, con un bacio
maschio che rosseggia sul viso,
che mi rende così folle.
In te è il terrore dei petali
se di tutte le rose ne fai una
e ti mostri, perfetta e breve,
in una taglia da sedicenne.
Mia piccola rosa, la ciocca
che ti fa così bella in fronte
innalza il tuo ventre a Dio,
ma in te è il terrore dei petali
se con un solo bacio mi mostri
la via della paura.

3.

Rosa di rose, per te, lunatica,
invento un quadrante di soli: lì
non è luogo, né tempo, in cui
tu possa dir
sì amore e poi no amore. Tutto
vi è assenza e parole fuori posto
ma tu sei la rosa per cui il mondo
spaccia taciturno le sue vanità.
Rossa rosa lunatica, per te invento
luce di canneti e niente notte: lì
non è spazio, né ora, in cui
tu possa far battello e poi molo. Tutto
vi è assenza e pensieri fuori sesto
ma tu sei la rosa per cui il mondo
spaccia le sue ragazze insolenti.
Ma quale rosa tu sei! La più lunatica
che spegne le ore, la bocca
di petali che inghiotte la luna.

***

Guido Caserza. (Genova 1960).
I suoi libri in prosa sono In un cielo d’amore (Zona, 2003), Vera vita di Gesù (Oèdipus, 2005), Fiabe a serramanico (d’if, 2007), Apocalissi tascabile (Oèdipus, 2012), Storia della mia infanzia ai tempi di Silvio Berlusconi (Zona, 2012), Primo romanzo morto (ad est dell’equatore, 2013), I 20 di Auschwitz (Oèdipus, 2017).
In versi ha pubblicato Allegoriche (Oèdipus, 2001), Malebolge (Oèdipus, 2006), Priscilla (Oèdipus, 2008), Flatus vocis (Puntoacapo editrice, 2014), Opus papai (Zona, 2016), Resto due (Zona, 2018)

encomio solenne alla poesia

vero, è vibrazione/vapore,
spenderete inutilmente anni
per acchiapparla col retino,
camerieri microfonati
grideranno al gelato

oggi c’è un bel sole,
l’ufficio anagrafe è chiuso,
la casa silenziosa
ha bisogno di due mani,
droni senza pilota

ogni figura svanisce sola
ma, sfogliando le sillabe più felici,
certi canti sopravvivranno:
non riavrete mai più
l’inaudito dentro come un ariete

attraverso relazioni inutili,
diplomi, galloni, cuoricini,
scampagnate a Hanging Rock,
amanti delusi, letturisti
finitela con queste idiozie