ESSERE e SIGNIFICATO
Ovvero, la dialettica infinita tra Filosofia e Scienza
Può accostare la “filosofia” alla “scienza”, modernamente intesa (pura o applicata, sempre téchne è), solo chi non si sia mai veramente accostato alla filosofia (rigorosa e radicale: se non è tale, non è filosofia ma chiacchiera più o meno erudita, di cui si può e si deve fare a meno).
Se la filosofia è un «gioco serio» (cfr. Platone, «Parmenide» 137 b), le scienze sono giochi poco “seri”, ancorché molto seriosi ed utili: ma, si sa, che qualcosa sia utile, funzionante, efficace non dimostra che sia vero ma soltanto, tautologicamente, che è utile, funziona ed è efficace: e queste sono categorie pratiche, non teoretiche, come ognun vede (ma si noterà, altresì, che “utilità, funzionalità, efficacia” indicano lo esser mezzi, quindi asserviti e non liberi, rispetto ad un fine presupposto e condizionante).
Non sono seri perché sono ipotetici ed ingenuamente presuppositivi, presuppositivi quindi “ingenui” (cfr. Bacchin, «Anypotheton», p. 288: “L’ingenuità del senso non filosofico accomuna lo scienziato, nonostante la complessità e scaltrezza delle sue metodologie, all’«infante»: perché senza una preconcetta «fiducia» nell’immediato e nel «dato», nessuna scienza sarebbe mai possibile.”), quindi, astratti.
Ora, il problema è che il proprium dell’astratto è di credersi immediatamente concreto (si noti: *credere* di essere qualcosa che non si è, senza *sapere* cosa si è veramente – ma il vero *essere* sarebbe precisamente il *sapere di essere*, che passa attraverso [mediazione] la critica di ciò che immediatamente si assume [si crede, si opina: doxa, non episteme] di essere).
L’astratto è tale, proprio perché non sa di “essere” tale, l’astrattezza è il non-sapere in cui consiste la pretesa di “sapere prima di sapere” che si chiama “credere di sapere” o “immediatezza” (l’astratto rifiuta strenuamente di sapere la propria astrattezza, cioè di prenderne coscienza, ed esso “è” questo rifiuto): averne coscienza sarebbe già “essere” nel concreto (concretezza, infatti, non è altro che sapere l’astrattezza dell’astratto).
Nel rifiuto dell’astratto di sapersi tale sta TUTTO l’astratto: esso è tutto e solo (in) tale rifiuto, per questo è tragico e comico insieme.
«Essere» non è (non può venire ridotto a) «significare»
Parimenti, sinonimizzare in senso scientifico (ossia in senso concettuale, non solo linguistico) «essente» e «significato», cioè considerare l’essere di ogni ente come un significato, che assume “significanza” e, quindi, “è” se stesso ovvero “è quel che è” solo in (cor)relazione ad ogni altro significato, ebbene tale prospettiva teoretica postula una dogmatica [presuppositiva] è però impossibile [contraddittoria] assolutizzazione ( = estensione all’intero) del significare ossia, in ultima analisi, della Relazione quale Fondamento.
Che è come dire: il significare non può assurgere al rango di “originario”.
Potremmo sintetizzare il tutto anche così, direi: l’Intero non è e non potrà mai essere un significato, non è significabile, non ricadrà mai nella “struttura” del significare.
E perché l’Intero non può decadere a “significato”?
Per la semplice ragione che l’Intero non può patire divisione alcuna (distinzione né da altro da sé, né in se stesso per propria auto-determinazione, come molti “teologicamente” opinano, non potendolo dimostrare).
E non può venire diviso, perché la “divisione dell’intero” risulta inintelligibile (impensabile); e risulta impensabile, perché comporta contraddizione: la contraddizione di un intero (uno, essere) che – per dividersi in se stesso, restando però se stesso – dovrebbe essere, insieme, il suo stesso atto del dividersi (chi altri potrebbe dividere l’intero se non l’intero stesso?), atto che come tale deve essere un atto INDIVISO, ed essere, tuttavia, anche risultato di tale atto di DIVIDERSI, quindi anche (e sub eodem respectu, ché vi è un unico “respectus”: l’Intero stesso, che è necessariamente il Tutto: non si danno due interi) DIVISO.
Che l’Intero (medesimo, sé, autò) sia “indiviso e diviso” (“medesimo e non medesimo”) è la palese contraddizione di un intero che non è tale… e quindi ogni discorso su un intero divisibile od originariamente diviso (cfr. E. Severino, «La struttura originaria») è un discorso che poggia su un assunto contraddittorio, quindi è discorso nullo, vano… è mero “discorso” (parola senza concetto, sofisma).
La Verità (l’Intero concreto) non conosce “progresso”
Se volessimo descrivere (sapendo che nessuna “descrizione” è come tale teoretica… ma nel “saperlo” sta la coscienza teoretica), se volessimo descrivere il movimento della teoresi (filosofia) rispetto al procedere delle scienze, potremmo immaginare l’azione di quest’ultime come un moto di “svolgimento” orizzontale (extensive), mentre il movimento dell’atto teoretico è la verticalità (intensive) dello “approfondimento”.
La verticalità non è una orizzontalità ortogonalmente ribaltata, ma è un, anzi, il trapassamento dell’INTERA orizzontalità, che viene risolta e dissolta nel senso della trascendentalità dall’approfondimento: il quale propriamente non è né passaggio [processualità, svolgimento, accrescimento, gradualità] né stasi [definitività]… poiché è negazione sia della incompiutezza sia della compiutezza.
Ed è per questo che chi si occupa del procedere orizzontale “perde tempo”, o meglio “si perde nel tempo” (perché si dispone nel tempo: si dis-pone, quindi si colloca nel tempo, che è appunto successione progressiva), mentre chi si occupa dell’atto teoretico non ha tempo da perdere, proprio perché – parafrasando un’espressione che Karl Barth riferiva a Dio stesso – “ha sempre tempo”, ovvero ha TUTTO il tempo (lo controlla non immergendovisi, dominandolo).
La filosofia non si contrappone al tempo né sta fuori dal tempo, bensì controlla il tempo (esistenza, storia personale, storia mondana…e tutto ciò che in esso è coinvolto, scienze incluse) e lo domina con un semplice “sguardo”, lo sguardo del Necessario (come tale né utile né inutile).
La filosofia, quindi il filosofo cioè l’uomo che si “asservisce” sovranamente alla libera “autorità” [augere = far crescere] del pensiero autentico ed incondizionato, intende solo la Verità (intero essere) e nient’altro: non si accontenta di essere soltanto “uomo” ed, anzi, guarda con “riso e pietà” (parafrasando Leopardi) le autoesaltazioni dell’uomo: poiché esse non sono il (necessario) superamento dell’uomo, in cui consiste la effettiva dignitas hominis (che è tensione al Valore, al Vero, indipendente dall’uomo), bensì sono il grottesco prolungamento della miseria di essere-uomo, “protesi” della sua impotenza doxastica (tronfia e vana, insieme), di cui le scienze sono, per l’appunto, la longa manus – e, proprio per la loro essenziale coappartenenza, la doxa (non la teoresi) le applaude e le osanna.
È questa la ragione per la quale una “filosofia”, che si (pre)occupasse del “progresso”, si occuperebbe di qualcosa d’altro, che, di certo, non è il Vero ossia l’Intero.
Sarebbe ed è mera antropologia o protesi della umana “volontà di potenza” (che è, come tale, ammissione di im-potenza, cioè di disparità tra volere e potere: la volontà è irrilevante al cospetto della Verità), quindi celebrazione della miseria dell’uomo… la quale, pur esaltata ed esaltantesi, resta miseria.
Per il “progresso” (utilissimo epperò teoreticamente irrilevante, anzi a-teoretico) vi sono già le sedicenti “scienze” e lasciamo volentieri la cura di tale “progresso” a loro ed alla loro funzionale (o “finzionale”?) ingenuità speculativa – ché, se non fossero ingenue (presuppositive, astratte), come potrebbero pro-gredire?
«Il cammino delle singole esperienze è segnato da questa perdita (nell’astratto) che niente può compensare: la scienza, come esperienza di questo cammino, è la più colossale mistificazione del concreto.
Si capisce perché la scienza “eluda” la filosofia e perché solo emancipandosi dalla filosofia essa sia potuta progredire; progredire è procedere integrando le parti ed importa la “divisione”: il concreto non progredisce perché non ne ha bisogno, progredire è il segno non del valore, ma dell’assenza di valore.
Mette conto di osservare come la scienza sia, nella sua formulazione moderna, appunto perché funzione logica dell’integrazione, la più manifesta (im)potenza dell’azione nei confronti dell’Intero e come la concretezza della filosofia sia una cosa sola con la sua impossibilità di valere nella progressione che ne temporalizza i termini.»
(R. Bacchin, Metafisica originaria, p. 114).
Filosofia: scienza del “limite”
Un’ultima considerazione.
Oggi la filosofia corre continuamente il rischio di ridursi a semplice “dossologia”, a mera “storia delle idee”, in una parola, a “scienza del linguaggio”: ciò accade quando la filosofia rinuncia alla propria ‘scientificità’ nelle interminabili decostruzioni critiche del significato (come nel pensiero “post-metafisico” di area francese), o quando la filosofia si illude di ‘scientificizzarsi’ trasformandosi in tecnica d’analisi formale dei concetti (come nel “neo-empirismo” di area anglosassone e americana).
Non v’è dubbio che la sfida contemporanea della filosofia risieda ancora (come per Husserl e per la tradizione tedesca della “fenomenologia”) nel suo rapportarsi alla scienza autentica: il “fatto” scientifico è ancora il “dato” di cui il sapere filosofico deve poter fornire le condizioni trascendentali di “possibilità”.
Eppure ciò non può che avvenire, al nostro tempo, nel senso di una assoluta “differenza” rispetto al passato: oggi al filosofo spetta la responsabilità di riconoscere il “differire” in-finito della Cosa, la sua concreta “e-sistenza” – l’esistere “e-statico” della Cosa – come il radicalmente Altro da ogni Oggetto “de-finito” tramite le categorie o le leggi della scienza.
Ritornando a questa sua Origine abissale, ritornando al suo Inizio – in senso teoretico: al suo “cominciamento” – solamente, la filosofia potrà ritrovare la propria essenza: il proprio essere un “pensiero” che pensa l’Impensabile, il proprio essere un “dire” che dice l’Indicibile, il proprio essere “scienza” del Limite di ogni discorso scientifico.
(cfr. M. Cacciari, «Della cosa ultima»).