Onorio

Io non so
di cosa siano ammalati
fiumi e stelle, fiumi di stelle
la terra umiliata dal secco,
con tutta l’acqua sciolta in aria
si diventa appiccicosi
fin dentro il carattere,

le cicale insolenti
con quei loro fonemi arabi
sempre in sottofondo, condanne
migrazioni che lasciano di stucco
i nostri bei dialetti,
unico sopravvissuto
di quattro aborti

sul Po asfaltabile.
Onorio disse ai romani di fidarsi
del suo eunuco,
noi terragnoli seguimmo Onorio,
lo raggiungemmo
scagliammo pietre per lapidarlo.

eh, sticazzi!

Si fa presto a definire Poeta ogni facitore di versi, senza nemmeno sapere cosa sia. D’altra parte ognuno ha la sua visione della poesia, molti nemmeno sanno definirla, solo qualche volta si lascia incontrare. Partiamo da un presupposto, il Poeta non ha bisogno di stare su un piedistallo, altrimenti sarebbe una statua con tutte le immobilità e le cacche di piccioni del caso eh, sticazzi! Un Poeta non può giudicare un altro Poeta, altrimenti sarebbe un critico, e certi critici tiranneggiano la Poesia, la riducono alla loro visione, facendola diventare un nulla. Un Poeta non può essere un uomo di potere, altrimenti è un politico, il sultano di un harem, un finanziere o un mafioso. Allora cosa cazzo è un Poeta, termine così abusato e conferito con grande spreco di titoli? Io penso che i Poeti siano pochi, ogni epoca ha avuto i suoi, ma erano pochi. Un Poeta è figlio del suo tempo, una persona, ma conosce bene il passato, e sa stare due passi avanti il presente. Perché sono i poeti la punta dello stormo, sono i primi a tagliare l’aria e ad avere la visione esatta del bello e di quanto seguirà il bello, oltretutto son persone per niente pacifiche e accomodanti. Finiamola di tenere i poeti su un trespolo, nelle scuole, o quale corteo allo scriteriato di turno. Un Poeta vero ha un ego gigantesco, ma è anche capace di essere cane da guardia all’umanità intera. Il primo nome di Poeta che mi viene in mente dopo quello del mio siamese? Ahmad Shah Massoud

letture amArgine: CAGNES SUR MER 1950 di Jorie Graham

CAGNES SUR MER 1950

Sono l’unica al mondo a ricordare
la voce di mia madre nell’ombra particolare
dell’arco romano ricolmo di cielo
che oscura le pietre sulla strada in discesa
da dove lei ora risale all’improvviso.
Come l’arco e la voce e l’ombra
violentemente afferrano il piccolo triangolo
della mia anima, un film muto dove note di piano
diventano un corpo impazzito
per le immagini saltellanti dello spirito – patria [abbandonata – miracolo da cui
si riemerge vivi. Così qui, io di nuovo
rileggo il libro del tempo,
il mio unico tempo, come se ci fosse un fatale errore la cui
natura non so rintracciare – o la forma – o l’origine –
prendo la creatura e la riporto
nel posto dove io sono un minuscolo serbatoio di sangue, [cinque chili d’ossa
e tendini e altre cose – già condannata a quest’unica [anima –
che dicono pesi meno d’una piuma, o tanto
quanto un centinaio di grammi quando cresce – come in [un viaggio ripercorro
quelle arterie, il prezioso liquido, il campo di metodi, [agonie,
stupori – che io non sprechi gli stupori –
che non uccida per errore fratello, sorella – mi
siederò con audacia una volta ancora sul mio inizio,
macchia scura dove una storia non diventa ancora un’altra,
e parole, non giunte a me ancora, ancora non proveranno a [dirmi
da dove vengono le cose, nè dove vanno,
dove risplenderà il flusso dell’inclinazione
nella sua veloce discesa. E mi sembrerà
tutta una leggenda,
una di quelle in cui non c’è modo di voltarsi indietro
ma voltarsi si deve, pagando, sì, ma voltarsi si deve…
Era d’estate in un paese in collina a sud.
Era prima che io conoscessi la conoscenza.
La mente correva ovunque e restava immobile al centro.
E non era scomodo.
Un uccello cantò, si aggiunse all’ombra
sotto l’arco.
Penso da questa distanza
che ero felice.
Penso a questa distanza.
Ero seduta. Era prima di saper camminare.
Solo la mia anima camminava ovunque senza peso.
Dove declinava la strada tutto spariva.
Proprio come immaginavo dovesse accadere.
Apparire e sparire.
Nella mia unica vita.
Quando s’avvicinò la voce di mia madre aveva un corpo.
Aveva braccia e abbracciavano qualcosa
che doveva essere un cesto. La mia mente ora
può girarle intorno, e davanti, e avvolgerla
come le sue braccia avvolgevano quel cesto.
E doveva essere di vimini
perchè nella luce vedo molte sfumature di marrone, le [punte bianche
quando esce dall’ombra
dove non si vede nulla eccetto le sue mani
e il suo portare. E quando il suo corpo arriva
arriva con tanti limoni tutti illuminati, interamente [avvolti nel sole,
che il pesante cesto ancora contiene,
e le sue unghie brillanti intrecciate,
e lo sguardo sul suo viso mi cerca,
sguardo simile a quelle cose brillanti che portava
davanti, un nuovo ventre.
Tutto ciò che avrei inventato in questa vita è là nel cesto di [vimini fra i limoni.
Venuto da sotto l’orizzonte, da dove sale il rumore del [mercato
su all’intima aria dove lei si muove,
dove lei è ancora una donna intera, una donna di volontà,
e io sento gridare quel che devono essere prezzi e nomi
di fiori e frutta e carne e animali chiusi in piccole gabbie,
tutto sotto di noi, dal fondo del villaggio, da quella parte
per me così comoda che è invisibile
dove ogni cosa deve essere venduta per mezzogiorno.
Penso fosse in quel momento che mi fu dato il mio nome,
quando ho sentito la prima volta i prezzi portati dalle voci
mentre la sua faccia s’apriva in un sorriso chinandosi [verso di me
per dire eccoti, eccoti.
(traduzione di Antonella Francini)


Jorie Graham, nata a New York nel 1950, è fra i maggiori esponenti della poesia americana d’oggi. È cresciuta a Roma, ha studiato filosofia in Francia, alla Sorbona, ha pubblicato dodici raccolte di versi e con The Dream of the Unified Field, una scelta di testi dal 1974 al 1994, ha vinto nel 1996 il premio Pulitzer per la poesia. Vive a Cambridge, Massachusetts, e insegna all’Università di Harvard

Ego, te absolvo

C’è pace, 72 anni di pace,
ma non si muore in pace
e, volendo essere puntiglioso
nemmeno si vive. Tant’è
le bare scoppiano, molte
lasciano presagire il contenuto,
troppi anni in cattività
inferociscono e ci fermano
a un mondo che non spetta più.
Tua moglie ha diversi amanti
poi non è nemmeno tua moglie,
troppo impegnativo il matrimonio,
sei cristiano ma usuraio,
nazista credente di Raqqa,
la vita continua su greti sporchi.
Ego, te absolvo
anche se a casa tua non c’è anima viva,
in regime di carcere duro
o semilibertà,
per i Settantamila milioni di oppressi
messi al mondo e abbandonati
come cuccioli sul guard rail, quando
gli oppressori nascono
già muniti d’assoluzione.

Link

in principio erano i Pavlov’s Dog

poi Malcon Mc Laren disse SIANO i Sex Pistols

e Joe Strummer lo mandò affanculo

ma gli strangolatori vissero felici e contenti, crebbero e si moltiplicarono

è parola di David Bowie, lode a lui che è nel basso dei cieli

la messa è finita… andate affanculo! (cit.)

letture amArgine: sdimenticare Nadia Campana

Incuriosito da questa mia conterranea mai conosciuta, quindi mai dimenticata, predestinata forse fin dal cognome. Per questo trovo giusto sdimenticarla. (Flavio Almerighi)


Nadia Campana è nata a Cesena nel 1954. È autrice di una cinquantina di poesie, raccolte dapprima in saggi e poi, significativamente riviste, nella raccolta postuma Verso la mente, curata da Milo de Angelis e Giovanni Turci. Ha tradotto l’opera di Emily Dickinson nel volume Le stanze di alabastro. Ha composto una serie di saggi dedicati alla letteratura e al tema melancolia, attualmente inediti. Tra questi, vanno ricordati Finendo e Visione postuma (quest’ultimo parzialmente edito nella rivista “Tratti” (dicembre 1986). Nadia Campana è morta a Milano nel 1985.

Il buio come bene

Tutte dolcezze sono alle dita
di rosa l’abito tinge
lungo l’azzurro pieno, come ti chiamavo
a cancellarmi, quaggiú, ti prego.
Per te, io ti, io te sono
che mi contiene nel tremante ricorso
del tuo silenzio vienimi incontro
orizzonte e allarga esso.
Come rami contro il cielo entrai in lui
una specie eletta dal suo cuore
come mondi sognati da miriadi di sogni
sradicati al centro quasi affondando
diciamo.

***

come un folle mago mi estraggo
dal petto la sete
bianco, giallo, stracci di ogni colore
spira il vento che assomiglia a pietra
sporge la gamba
accenna un passo di danza
s’incrina il bacino
si perde l’equilibrio
sul volto scende la saliva

***

perché cresca la luce
perché cresca il buio
perché al chiuso – questo –
crollano umani
rivestono di pori le gocce
d’oscuro chiama la schiuma
accesa tondo rovescia
oscuro più oscuro
annaspandoti, e tu mia mente
*
New York

assomigliava al mio cuore alternativamente separato
e unito come le labbra tra cui si mischia l’immagine
del vuoto, mia letizia, mia rosa d’inverno, destato
anno che verrà –
trafittura e ragione che perfora la testa ma non lascia
mai al buio. Con i capelli scogliera mobile che non si
possono dividere in due masse divergenti correre, attaccare
il pane con il coltello diritto o di scancio ma senza mangiarlo
e fendere con il frutto nord e sud
tassi nell’alba arancione piangendo
i palazzi uniche dighe alle nubi – e tutti –
tutti voltavano visi da apache perché era il parco
centrale, per cinque minuti attraversa la notte
come cento giorni di viaggio –
o una mano che puntava
una sicurezza e un dubbio insieme appoggiati a un sorriso
tocca la penombra pendio dove sono
e non sono, si china
per cogliere semplicemente per cogliere semplicemente
delle cose e quando si rialza non a nulla in mano.
Dolce bianco e scuro vino buono come i corvi –
il tempo.
è il mio agonizzare quando mi allontano e vado
a raggiungere la siepe di tutti i giorni
dove resta impigliata la maglia si strappa e non
è che brandelli. Si è fermato. Mormorava tra sé alcune
parole che non saprò mai completamente.
Non è amaro, è di ossa e di carne, avorio, corno,
acqua, intelligenza, amore, cuscino.

e ogni altra cosa impossibile.

Attorno solo aria
non si parla senza luce.
Il nero penombra
vale un amplesso,
le voci di fuori aumentano
in solitudine ogni desiderio:
il colore assente spunta
il seno indimenticato,
ogni singola profondità
di pensiero e il tuo sesso
in fantasia controluce
che non c’è, solo la voglia
avvicina, attorno le cose
si abituano alla rinfusa, insolita
anche per un uomo,
mi sento portare di nascosto
verso amore che non sono io,
che non sia il male minore
ma amore, prato straziato
d’immutabile primavera
e ogni altra cosa impossibile.
Il mio pensiero, il tuo
l’inimmaginabile piacere
giunto alle stesse conclusioni

Il mio lavoro non è bello

Nonostante mangi fuoco
l’alito non è sgradevole
nemmeno durante un bacio.
L’incoerente siede
sopra un morso, lo tira
lo allenta a piacimento.
E t’amo è conficcato in gola
sotto marciapiedi bagnati,
parole dall’impugnatura nuda
come estati fresche
e rose chine.
Non serve ricordare,
nemmeno sfoltire l’umanità,
prima o poi si morirà tutti
saltando da un cielo all’altro.
Il mio lavoro non è bello,
niente per cui valga la pena,
perché non è lo stesso che
avevo scelto da bambino.

scritto

non che vadano bene
un intreccio eccessivo
di sentimento e risentimento,
i colori siano troppo accesi
la musica sbiadita, autunnale
piena di malinconia
carente di abbracci,
oppure troppe rivendicazioni
annegate in fiumi di amicizie
da bar,
un rivedersi lento
dopo l’incendio del bosco
lasciato andare in mezzo
a nuovi incontri;
non trascurare mai il romanzetto
con una signorina
incontrata per caso in tribunale,
stessi ingredienti di un sogno,
le strade mai pronte
a fornire indicazioni.
Finirà che l’uxoricida
indicherà agli sbirri il luogo
dove ha occultato
il cadavere della moglie
dopo averle aperto la testa
come una noce,
è bastato un momento
per distruggere l’onestà intera
di tutta una vita,
mentre padre e figlio
riconciliati da un brutto male,
queste cose succedono
solo per pietà,
usciranno in macchina
verso una passeggiata
non si sa dove

Taddeo al bagno

Centocinquantamila euro di fontana
Taddeo può fare il suo bel pediluvio,
quando, la mattina presto
l’estate è in vacanza.
Non m’incazzo no, Taddeo
il passato breve che hai alle spalle
è il tuo miglior diritto.
Un dente sì, un dente no, sorridi un po’!
La piazza nuova non è per il traffico,
come si dice se ti mozzano i piedi:
se tagliare la testa è decapitare,
se cavare gli occhi accecare.
Come si dice per i piedi?
Ora già non ci sei più.
Mi basta saperti felice sulla fontana
il tuo talento parla per te, e io sono
l’uomo vecchio da seppellire.