letture amArgine: VORREI

Un amico mi ha inviato questo testo, l’accompagnamento è umile e scabro come lui “Una delle mie stupide elucubrazioni, un abbraccio”. Ne sei sicuro? Io penso si tratti di desideri comuni, voglia di essere veri, parole vere in cerca di vere persone.

VORREI ! …

Vorrei poter percorrere in un attimo il cammino dell’infinito –
Vorrei in un attimo capire il pianto di un bimbo –
Vorrei avere il coraggio di stringere la mano che si protende verso di me –
Vorrei saper ridere di me e della mia ignoranza –
Vorrei aver la forza di gridare al mondo i miei limiti –
Vorrei non chiudermi, come spesso faccio, per aprire la mia anima al mondo –
Vorrei poter vincere la mia ipocrisia, paura e viltà –
Vorrei poter essere ciò che sono senza maschere e finzioni –
Vorrei poter esprimere liberamente ciò che il mio Sé profondo mi suggerisce con fievole voce-
Vorrei poter correre veloce senza temere che il vento mi accarezzi scorrendo sul mio viso scompigliandomi i capelli –
Vorrei spogliarmi di me mettendo a nudo le mie parti più vere, la mia anima –

VORREI !!! …

fauna amArgine: un calcetto al cosidetto ministro del Lavoro Poletti

Rimanga tra noi e i due o trecento che leggeranno. Poletti il presunto ministro, è appena normodotato nel senso che ha il pollice opponibile come tutti i primati e qualche bancario. Ha fatto carriera partendo dalla FGCI, facendosi un culo così a forza di chiudere cappelletti per i festival de l’Unità. Cosa lo distingueva dagli altri, a parte le non eccelse doti intellettuali? Una non comune capacità di maneggio (non dei cavalli) lo stare sempre dalla cosca, ehm… pardon, dalla parte che vinceva. Il PD (nelle sue varie sigle e declinazioni dal rossissimo al rosè al profondo renziano, governa la mia amata Emilia Romagna da 71 anni. Trovatemi un altro paese al mondo dove lo stesso partito tiene il potere da così tanto tempo. Finiti i galantuomini, come i dinosauri purtroppo estinti, e non dite Bersani, perché farebbe bene ad aprire una pulitintolavanderia per giaguari. Il PCI/PDS/DS/PD è diventato partito degli affari peggio della peggior DC, delle coop miliardarie della finanza. Tutta bella gente col cuore (forse) a sinistra, ma con la saccoccia ben salda a destra. Concludendo, in Calabria c’è la ‘ndrangheta, in Sicilia Cosa Nostra, in Campania Jenny ‘a Carogna. Cosa c’è in Emilia Romagna, chi fa sì che non si muova appalto che dio non voglia? Lo scrivo sanguinando lacrime di sangiovese. Glielo darei io un bel calcetto a costui, soch!

letture amArgine: due poesie di Lucia Gaddo Zanovello

Il libro “Consapevolvenze” di Lucia Gaddo Zanovello da cui sono tratti questi due brani è un fantastico cinema multisala, ma la sceneggiatrice è una sola, ed è una grande.

La via

Voglio stare dentro un’idea di mamma
nel sole di un sorriso
nel largo di un porto
chiuso ai marosi
e uscire sapendo
dell’attesa che tutto prepara.
Ma lo scheletro di Dio è come il mio
domanda l’immagine sua.
Certo che lo spirito animale
anima pelle e mirabili tegumenti ai viventi
a tutte le stirpi dei morienti semoventi.
So che a ragione nascono tutti
a buona ragione e giusta
e che il mistero grande di trovarla
è la via che cerco.

L’imbarazzo di essere felici

Come replicare a tanto aperte braccia
se non fiondandosi come di corsa
nel centro della disponibilità.
È che chi vede da fuori non capisce,
fatto certo è che pare come la gelosia
sensazione in sé di torto subíto.
La gioia a volte dà piú briga del pianto
perché mette a debito
in questo mondo fatto per patire.
La festa ingombra piú dell’amarezza
se traboccando urta
il vaso vuoto dell’altro.
Rimettere in pari il livello d’ansia
tarato sulla medietà della sopravvivenza
è impresa che richiede ingegno piú che doglia,
non per nulla si dice
che il sollievo del riso sia etico dovere.
È la ferita
materia di scambio all’apparire umano
arteria e raccordo
nodo e sbocco
nella stretta di essere al mondo.

Notizie biobibliografiche sull’autrice sono reperibili qui:

https://it.wikipedia.org/wiki/Lucia_Gaddo_Zanovello

A mia madre

gli uomini cedui non chiedono conto.
in base alle leggi gravitazionali
cadono insolenti come finimondi
facendo scempio di vetri smerigliati.
Gli anniversari vanno composti
inscenati più volte, giorno e notte
sillaba per sillaba, silenzio per silenzio
fermati e disposti senza deviazioni
dentro l’aria chiusa di camere oscure,
tenendo ben saldi i polsi all’acropoli
di ogni desiderio pratico. L’avevi detto,
sembra un gioco a dadi e sponda
su un tappeto verde che arrossisce
prima di aver rilanciato l’addio.
Il torto è dalla parte del soldato,
pagine sciatte di gerundi avvoltoi
incontinenti e subito dimenticate
rivelano un tardivo volerti bene
intessuto d’improvvisazioni, sai
ora è molto tempo fa e mi sento
stazionarti in grembo

ascolti amArgine: cosa è successo alla Ragazza?

“ I testi di Panella sono vertigini linguistiche, le musiche di Battisti sono gli abissi adatti per precipitarvi.” ( cit. da http://cronachebabilonesi.blogspot.it/2013/08/battisti-panella-piccolo-preambolo-ai.html)

Penso sia necessario dar tempo alla poesia, anche a quella travestita da canzonetta. Tutti i più illustri critici musicali, dopo la sua inversione di rotta non a 360 gradi ma a 720, hanno affermato che Lucio Battisti abbia voluto scientemente distruggere la propria immagine dopo il successo con Mogol. Battisti non ha neppure risposto, non ne valeva la pena. Fosse stato per i tuttologi, il nostro avrebbe fatto la fine dei Dik Dik oppure si sarebbe ritirato a vita privata, fatto i cazzi propri e goduta la caterva di milioni/miliardi meritatamente guadagnati durante gli anni ‘70. Non lo ha fatto. Un artista nella sua condizione, invece, si è permesso il lusso che solitamente si concedono artisti disperati in cerca di un’ultima chanche, si è messo in gioco. Il risultato è stato uno dei migliori e più resistenti prodotti artistici in assoluto in Italia nell’ambito della cosidetta musica leggera dal dopoguerra a oggi. Le parole di Pasquale Panella, gli arrangiamenti di Battisti e uno staff di musicisti e produttori, non un italiano tra loro purtroppo, assolutamente in linea con tendenze musicali all’epoca avveniristiche, hanno prodotto 40 canzoni, 40 capolavori, 40 poesie. Luzzatto Fegiz, tiè! (Flavio Almerighi)

discografia essenziale:
Don Giovanni, Numero Uno, 1986;
L’apparenza, Numero Uno, 1988;
La sposa occidentale, CBS, 1990;
C.S.A.R. (Cosa Succederà Alla Ragazza) Columbia, 1992;
Hegel, Numero Uno, 1994.

roastbeef al sangue

by Georgi Andinov

“Sa che io per l’appunto
sono semplice, so scherzare.
Semplice da ferire
da guarire. E mi lascia fare
una coorte di errori
tenendomi per mano”

È stupido che, come noi
milioni di limoni
giudizi pressanti e diversi
rispettino casette
buone a nulla, allineate
dipinte dello stesso colore.

Ignobile tempo prestato
alla tranquillità dell’abbaglio,
non c’è retribuzione
nessun imponibile sufficiente
a saldare un conto, un
roastbeef al sangue.

Niente e nessuno è più grande
di noi. Tutti sappiamo,
spaccare teste non è bene
ma lo facciamo ugualmente.

riLetture amArgine: Beppe Salvia, I begli occhi del ladro

La realtà è, oggettivamente estrema, che poi a una certa età, forse per stanchezza o bisogno di non sentirci soli crediamo di uscirne indenni pur scendendoci a patti, è una questione molto, molto opinabile e dibattibile. Non esiste un’età dell’impulsività, esiste un’età della forza anche quando le forze calano, e allora diventa coerenza. Per quanto riguarda la questione Poesia, è talmente imprendibile che, quando credi di averla afferrata rimani sfigato come o più di prima, perché non l’afferri. Lei ti afferra e ti sbatacchia. E chi si vuole autopromuovere attraverso di essa, merita che qualcuno o tutti scrivano la parola “cazzo” su tutte le pagine delle sue belle riviste nette e pulite per modo dire. (Flavio Almerighi)

Beppe Salvia, I begli occhi del ladro

E’ presa la vena, carezzala, fa
arco col braccio, appanna il lume, luce
celeste brilla una febbre sul braccio;
scalda l’anima copri lo specchio, fa
che una coltre allontani le voci, la
lamina d’argento s’è scaldata, è
la bianca fiamma che adesso mescola
a una gocciola che tersa traspare
la bianca bianca eroina, la vena
è radice il laccio stringe l’ago
riluce brilla buca il braccio, brina
scioglie che sulle ciglia brillava, va
in vena, è il momento del mantice, la
misura di sidro che versa dal calice,
son chiusi i begli occhi del ladro.

Beppe Salvia

Annalisa Ciampalini legge Giancarlo Stoccoro

Prima di addentrarmi nei versi di quest’autore mi piace far presente che “Consulente del buio” è un’antologia che raccoglie le poesie scritte da Giancarlo Stoccoro nell’arco di trenta anni. Il libro è suddiviso in sezioni che sono state formate in seguito a un’adeguata selezione di testi. La scelta di inserire le varie sezioni rispettando la cronologia della composizione può aiutare il lettore a entrare in confidenza con la ricerca poetica dell’autore.
Le prime poesie risalgono al 1983 quando Stoccoro aveva solo venti anni, ma già all’epoca era chiara la sua potenzialità. Non c’è nulla di banale e scontato in quegli scritti da cui emerge una seria intenzione di far poesia e uno sguardo sul mondo già ben delineato, come si può evincere dai versi seguenti: “La fissità dello sguardo/ l’immensità di due occhi/ piccoli /che si fanno eco/ che si fanno specchio// è già la patologia/ del distacco”. L’evoluzione della poetica è evidente nella scelta lessicale e nella contrazione dei testi, in una scelta stilistica che inevitabilmente si riversa anche nel pensiero. I versi scritti in gioventù sono più allungati e diluiti rispetto a quelli più recenti e proprio per questo motivo possono rivelarsi utili per avvicinarsi alla poesia di quest’autore.
A una prima lettura la poesia di Stoccoro può risultare difficile, l’impressione è quella di trovarsi di fronte a qualcosa di estremamente significativo ma di non riuscire a trovare la chiave giusta per afferrarne il nucleo. Se è vero che la scrittura poetica funziona proprio quando produce versi plasmabili dalla mente del lettore, d’altra parte bisogna considerare che a volte quest’ultimo desidera essere trasportato fuori da se stesso ed essere sorpreso dallo sguardo dell’autore. Ecco che leggere e rileggere questi testi può essere un’occasione per esplorare la complessità della scrittura poetica (“La poesia non riduce la complessità, viceversa le offre uno spazio dove muoversi”, leggiamo a pagina 41 del libro) e accettare l’esistenza di quella parte oscura che non si lascia tradurre. Significa fare nostro l’atteggiamento della “Negative Capability” di John Keats e al contempo riuscire a seguire la parte della mente più incline all’avventura della scoperta.
“La poesia anela a un approdo ma la lingua offre più spesso la consolazione di un porto sicuro dimenticando presto il naufragio. “Altri naufragi sempre ci attendono”. Questi versi, tratti dalla sezione “Esercizi di sopravvivenza”, possono essere un buon punto di partenza per entrare nel vivo della ricerca poetica del nostro autore. Bene, intanto si prende atto che lingua e linguaggio poetico non coincidono. Potremmo vedere l’incontro tra la parola e la cosa che essa indica come una relazione, una corrispondenza utile per comunicare senza fraintendimenti. Ma una volta che l’associazione si è consolidata e la lingua si è evoluta, si dimentica la forza primordiale del legame tra parola e cosa, tutto risulta troppo concettualizzato, efficace per la comunicazione ma povero di parole in grado di rivelare. “Le parole si nascondono dentro i nomi/ delle cose e a volte non escono più”, dice il poeta. Ed è a questo proposito che Tesio, nella prefazione, cita Bonnefoy, poeta che ha avvertito profondamente quanto le parole, nel processo di evoluzione linguistica, siano state allontanate dalle cose. Leggiamo:
“Maschile e femminile/ non sono/ declinazioni dell’essere/ Mappe di mondi/ incastonate come diamanti/ ma brandelli di carne/ e ossi/”. E ancora: “Le parole lunghe sono sfilacciate/ e lasciano posto a un silenzio/ pieno di germogli “. “Sembra che l’anima/ non riesca ad aprirsi a un vocabolo/ senza una ferita”. “Logora è la parola/ quando la interrogo/ non consola”.
La lotta del poeta contro la difettività della parola può non avere termine, i tentativi di avvicinare il percepito a una sua possibile traduzione potrebbero, in teoria, diventare infiniti e questo dà anima alla tensione che scorgiamo in tutto il libro.
Leggendo le poesie di Stoccoro si avverte l’importante presenza dei luoghi. Luoghi della natura, o luoghi che sono semplicemente ritagli di spazio. Essi possiedono frequentemente caratteristiche particolari, sono luoghi dinamici, fibre che si spostano, compiono azioni. A questo proposito leggiamo:
“I luoghi che finiscono/ i giorni che s’accasciano……dispersi per un fulmine/ muti per un abbraccio”. “Non luoghi vicini/ dove appendere le ali/ ma stretti cunicoli/ da attraversare/ nelle ore imperfette”. “La distanza è ovunque/ non sapendo dove sei”. “Con la finestra piena/ i paesaggi sempre uguali/ prendono la forma di altri luoghi”. E ancora: “Sono i luoghi a riconoscere le persone, non il contrario”.
Quest’ultimo verso che apre la sezione “L’inganno del giorno”, rivela una specularità tra luoghi e persone: se non per l’essenza, essi si somigliano per caratteristiche di dinamicità, per la presenza di uno sguardo. I luoghi, come le persone, cambiano col tempo, si modificano, si pongono diversamente in relazione. L’incontro tra luogo e persona è un assestamento continuo: entrambi si misurano, si valutano reciprocamente. “Non ho posto/ nel tuo sguardo”. “Cammino dentro il tuo sguardo”. Lo sguardo, che solitamente connota in modo forte l’essere umano, qui diventa spazio, acquista una caratteristica del luogo.
Insieme ai luoghi sorgono la notte, le ombre, la presenza assordante del silenzio, elementi che fanno pensare a un mondo nascosto, a una verità taciuta. Ma non bisogna farci trarre in inganno. Il buio, l’ombra e il silenzio possono essere altro. Leggiamo:
“Perché più vicino è il luogo adesso che comincia la notte/…Perché a volte il giorno è più opaco della notte”. E ancora: “È il giorno a raccogliere le parole e / la notte a farle esplodere”.” Non vorrei fosse il giorno/ la speranza di tutto/…..Qui la notte sola/ porta consiglio e un/poco di pace/ alla finestra di lava”. ” Sono l’ombra che cattura/ il sogno come il tuo sguardo/….”Quando arriva la notte / il tuo silenzio/ si fa assordante/ e le ombre tutte/ si muovono per stringersi/ attorno al tuo nome.” E infine: “Consulente del buio/ a volte intravedo/ la parola solitaria/ come sorgente che zampilla”.
Il buio e l’ombra possono quindi avere una valenza che va oltre il linguaggio comune, diventare essi stessi luoghi privilegiati in cui è più facile rintracciare il mistero dell’incontro remoto tra la parola e la cosa, in cui i silenzi hanno un valore perduto.
In questo libro esiste un filo nascosto che raccorda tutto il dettato poetico, che unisce i luoghi alle persone. L’emozione, per quanto poco nominata, scivola in ogni fibra, umana e non umana. È una lettura che offre la possibilità di riflettere sulla limitatezza della parola e sulla sua incredibile potenza, di osservare da vicino l’abisso della poesia. Non a caso il poeta cita in esergo Celan: “Poesia, questione d’abisso”.
Annalisa Ciampalini

Giancarlo Stoccoro, nato a Milano nel 1963, è psichiatra e psicoterapeuta. Studioso di Georg Groddeck, ne ha curato e introdotto l’edizione italiana della biografia: Georg Groddeck Una vita, di W. Martynkewicz (IL Saggiatore, Milano, 2005). Da parecchi anni, oltre all’attività clinica, si occupa di formazione e conduce incontri sulla relazione medico-paziente secondo la metodica dei Gruppi Balint e ha pubblicato diversi lavori su riviste scientifiche.
Suo è il primo saggio che esplora il cinema associato al Social Dreaming (sognare sociale/ sognare assieme) che ha applicato in ambito sanitario, scolastico, nelle carceri e direttamente nei cinema: Occhi del sogno.(Giovanni Fioriti editore, Roma, 2012).
Ha partecipato al premio Lerici Pea 1988, vincendo la medaglia nati dopo il 1958, con la poesia L’ombra dell’aquilone premiata da Giorgio Caproni.
Sono state segnalate poesie su Lo Specchio della Stampa (2/12/06) nella rubrica “Scuola di Poesia”
e in “Dialoghi in versi” (17/08/2007) da Maurizio Cucchi.
Per le edizioni Gattomerlino/Superstripes è uscito nel 2014 Il negozio degli affetti e in ebook presso Morellini Note di sguardo, tra le opere vincitrici del concorso internazionale Lago Gerundo 2014. È dell’aprile 2015 Benché non si sappia entrambi che vivere per Alla chiara fonte editore di Lugano. Nel settembre 2015 è uscito I registi della mente (Falsopiano, giugno 2015), curato da Ignazio Senatore, contenente il lavoro Ciak. Si sogna! L’esperienza di Kiev.
Nel novembre 2015 è arrivato tra i finalisti del 29 ° Premio internazionale Lorenzo Montano con la poesia inedita Non hanno scuse. Nel marzo 2016 si è classificato al secondo posto al Premio Torresano 2016 con la raccolta inedita La dimora dello sguardo, che otterrà la segnalazione speciale della giuria al Premio letterario Nazionale Scriviamo insieme (ottobre 2016).
Parole a mio nome, è la silloge, edita c/o Il Convivio Editore, vincitrice del Premio Pietro Carrera (aprile 2016) e successivamente finalista del Premio Gozzano 2016 per l’opera edita.
Sempre del 2016 è il saggio da lui curato, Pierino Porcospino e l’analista selvaggio, con scritti inediti di Groddeck e di Ingeborg Bachmann e il contributo di autori vari per ADV Publishing House di Lugano.
Ha collaborato al secondo numero della rivista Poesia e conoscenza di Donatella Bisutti con il lavoro: “Brevi considerazioni sull’inconscio e la scrittura poetica”.
È vincitore del terzo premio Hombres Itinerante “Ignazio Silone” (giugno 2016) con la poesia inedita Si sommano i luoghi ai gesti alle frasi. E’ finalista del Premio Museo Casa Alda Merini 2016 con la silloge inedita Luoghi ligi.
Ha ricevuto ancora nel 2016 una menzione speciale al 30° Premio Lorenzo Montano, per la raccolta inedita Luoghi d’ombra, poi riproposta con alcune variazioni e classificatasi terza al Premio Subiaco Città del Libro IV edizione e attualmente finalista al Premio Poetika, al Premio Quasimodo e al Premio Salvatore Piccoli (gennaio 2017).
Nel gennaio 2017 è uscita l’ampia raccolta poetica Consulente del buio (1983-2013), con prefazione di Giovanni Tesio (L’Erudita, Roma, 2017), finalista al Premio Europa in Versi 2017.
E’ in attesa di pubblicazione presso AnimaMundi di Otranto Alla corte dell’Es Poeti e prosatori, saggio da lui curato con il contributo di Donatella Bisutti, Franco Buffoni, Milo De Angelis, Alessandro Defilippi, Maria Grazia Calandrone, Laura Liberale,Franco Loi, Franca Mancinelli, Umberto Piersanti, Fabio Pusterla, Giovanna Rosadini, Miro Silvera, Giovanni Tesio.

ascolti amArgine: Emidio Clementi Notturno Americano 2015 (Santeria / Audioglobe)

Dopo la quarantina, quando si diventa troppo giovani per morire/troppo vecchi per il rock’n’roll, si diventa più sensibili alle foglie e alla poesia. Quella vecchia, ma saggia, puttana che è la poesia. Quella cosa che nessuno sa meglio definire, ma interpreta, adatta, adopera. Finisci anche per arrivare a distinguere il paroliere dal poeta, uhm… progressi su progressi. Poi cerchi per due anni un disco di Emidio Clementi, ex Massimo Volume, finisci che lo trovi e finisci per ascoltarti le poesie di Emanuel Carnevali.

Cito la recensione di Michele Palozzo da http://www.ondarock.it/recensioni/2015_emidioclementi_notturnoamericano.htm

Emidio Clementi Notturno Americano 2015 (Santeria / Audioglobe)
La mente e il cuore di Mimì hanno sempre guardato all’America. Vede e non giudica, non ridimensiona, non politicizza – malattia tutta italiana – lascia che il racconto si difenda da sé, ove possibile. Votato ai maledetti, ai reietti e agli infami, il suo occhio dimesso e compassionevole è lo stesso di Edward Hopper, Capote, Carver e Shepard (indimenticabile la sua lettura di “Motel Chronicles”). Ma è il fantasma di Emanuel Carnevali ad averlo inseguito tutta una vita, portando sui palchi “Il primo dio” con i Massimo Volume e sempre lasciandosi ispirare da quel decadentismo apparentemente ingenuo ma forse, in verità, il più autentico e dolente.

America! Quasi riuscisti a schiacciarmi, ma io ogni tanto mi rimettevo in piedi. […]
America! Non sono mai stato forte abbastanza per farti una vera ferita.

In ogni frase di Carnevali rimbomba lo schianto dell’American dream contro il muro della realtà. Il suo viaggio oltreoceano diviene da subito un calvario, scandito da una sequela infinita di pidocchiosi lavoretti da cameriere, lavapiatti, addetto alle pulizie, la miseria più nera soffocata dentro stanze ammuffite e infestate da cimici. New York, “sogno di chi non sogna”: vagando per strade luccicanti o scurissime, come gironi al confine tra inferno e paradiso, il giovane Emanuel sopravvive soltanto grazie all’ormai scomparsa istituzione dei free lunch-counter, bar che offrivano pasti per accalappiare nuovi clienti.
È il ritratto nudo e senza sconti di un’America spietata, che non lascia scampo a chi intende affrontarla da solo, disarmato: Carnevali le si rivolge come all’immagine personificata di un Padreterno crudele, cieco e sordo di fronte alla sofferenza di un suo figlio disperso (“Se tutte le ore che ho passato in camere ammobiliate potessero diventare dure come grani di rosario, esse formerebbero le note di un grido senza fine, che, forse, raggiungerebbe le orecchie di Dio”).

La scarna sonorizzazione è affidata alla chitarra di Corrado Nuccini e al violino di Emanuele Reverberi, entrambi dai Giardini di Mirò: fotogrammi sbiaditi di un notturno novecentesco, capaci di esercitare un enorme effetto anche quando non ci facciamo troppo caso, rapiti dalla morbosa crudezza della narrazione di Clementi. Da sempre il suo stile non cede a sensazionalismi, trattiene a lungo la rabbia e lo sconforto per poi lasciarli traboccare ne “I camerieri”, delirio grottesco solcato da un intreccio melodico dilaniante.
Le venature elettroniche di “Chicago”, controparte inerte della rutilante metropoli, sono la prima avvisaglia della pazzia incipiente di Carnevali, che d’un tratto vede “saltare l’interruttore nella macchina della realtà”. Disilluso anche in amore, la sua “Chanson de Blackboulé” è un sommesso slowcore da bettola suburbana, la patetica dichiarazione di un outsider sottoscritta da fiati in stile Antlers.
Come il prologo, anche il finale è una sequenza immaginata da Clementi: l’esibizione al Playhouse di Milwaukee, un locale per bevitori annoiati e oratori in cerca di attenzione; è qui che il poeta va incontro alla sua sconfitta, tra lo stridore di corde tormentate, e come vittima sacrificale – in nome dello “splendido luogo comune” – prorompe alfine nella più banale delle canzoni napoletane. Sipario.

Emanuel Carnevali “accarezza il sogno, ma non riesce a stringere la presa”: al rientro in Italia seguiranno vent’anni di malattia e ricoveri, nel 1942 la morte a Bologna. Con “Notturno Americano” Clementi conferisce al suo alter ego di lunga data – del quale condivide le iniziali – e alla sua tragica esistenza, tutta la dignità umana e letteraria che merita. E davvero, c’è forza nelle loro parole.