rerum novarum

sì dico a voi genia di ignoranti
spazzatura d’ogni religione,
anime e cervelli indegni
peso netto del pitale
dopo migliaia di notti di San Bartolomeo

voi incidente della storia,
non saprete mai di sparire
sì dico a voi nazisti, khmer rossi
porci liberisti coi vostri zero virgola,
forti solamente con chi non sa difendersi

a voi che atterrate le statue a Ninive,
incendiari della biblioteca di Alessandria,
vigliacchi nella notte dei cristalli,
sfregiatori del Buddha di Bamiyan,
alle vostre piste d’atterraggio a Babilonia,

dico a voi evangelizzatori
al soldo di santa romana chiesa
e di tutto l’oro che si può arraffare,
andrete in paradiso, se Dio esiste
finirete in braccio a un dio assiro

Moderno apprendistato – Flavio Almerighi

Prospektiva

Il Braille a quanto pare
rammenta costellazioni
riflesse sull’acqua,
l’anima corre metri bui
dentro la maglietta.

Terminate le distanze
si apre, pianta carnivora
bilico d’erboristeria
e succhi gastrici,
perfettamente sbiadita

se qualcuno manca,
il silenzio ricorrente
ebbro di stelle
pugnala ripetendo ti amo,
moderno apprendistato
è non trovarsi più

View original post

due inverni fa

ricordo quanta pioggia
due inverni fa,
sotto il cielo compatto
di grigia solitudine,
vastità senza orizzonte
che non contemplava
neppure un cinema.

Chiudi bene la porta,
chiudila a doppia mandata,
che nessuno venga a rubare
questo opificio di macerie.

Niente più vissuto
il destino ha denti aguzzi
e nessun angolo.
La vita passa,
le squadre pareggiano
i bilanci no, ma credo
di essere sembrato un uomo

Presagio: una poesia di Ubaldo De Robertis

Ubaldo de Robertis, Se la luna fosse…un Aquilone, Limina Mentis Editore, 2012

Presagio

Fuori del mare…
alberi svestiti di vele
la sferza dei venti che scompiglia
drizze di randa ed amantigli
schiume increspate
fremono in muraglie

Sarà il nocchiere
creatura senza nome
uomo dello scandaglio
non l’opera morta
non l’immersa carena
ad aprirsi in squarci
a cedere…per primo

Floriano Romboli
“ Fuori del mare…” : è l’emergere dell’animus cosciente da quella “materia/ madre sostanza prima” evocata successivamente ( v. la lirica intitolata Lo Sciamano) e intesa quale agglomerato indistinto e potente, indifferenziata fonte di energia, fondamento solido e fecondo dell’essere.
Esistere, avvertire e manifestare senso di sé è uscire dal mare e dare inizio all’avventura di una vita responsabile, è acquisire la specificità e l’autonomia dell’animale-uomo, pur nella consapevolezza della fragilità delle costruzioni in cui può prender forma e provvisoriamente assestarsi il fremito vitale-naturale, l’insieme delle “schiume increspate”, come con immagine davvero efficace l’autore sa rendere l’idea del dinamismo costante e affascinante della vita nella sua irriflessa immediatezza.

Emilio Sidoti: Prefazione
Una bufera sconvolge il mare ( “schiume increspate / fremono muraglie” ) e un vento implacabile “sferza” i battelli agli ormeggi. Ma non saranno le cose edificate dall’uomo ( “ non l’opera morta / l’immersa carena” ) ad essere travolte per prime dalla bufera, bensì “ il nocchiere” (…), destinato “ad aprirsi in squarci / a cedere per primo” ; il quale è , sì, “una creatura senza nome”, ma anche – è sta qui la nota da non perdere di vista- “uomo dello scandaglio”: che discerne, valuta, riflette. E’ forse il poeta, pur considerandosi uno dell’oscura folla? O l’essere umano in genere? Oppure la mente umana, sede del pensiero? Il lettore può flettere soggettivamente tale nucleo semantico, avendo presente però che ciò che ha letto a tal punto s’interiorizza per acquistare una dimensione mentale. Il luogo della tempesta non è lo spazio-tempo nella sua fisicità, ma lo schermo della mente in cui lo spazio-tempo si riflette materiando il pensiero. Per cui la bufera che pareva un evento materiale ti diventa figura di un sisma d’anima, sì violento da condurre la mente alla catastrofe e all’obnubilamento emotivo.

Maria Giovanna Missaggia
Blumenberg traccia la storia di questa metafora che egli considera centrale nella civiltà dell’Occidente, e vi rileva uno slittamento di significato, dalla tempesta e dal naufragio sul mare al naufragio che coinvolge la stessa storia dell’uomo, dalla catastrofe naturale alla catastrofe storica. Di fronte ad essa la reazione dell’individuo, quale emerge dalle pagine di scrittori e filosofi dell’Occidente, sarebbe o di semplice spettatore, o di soggetto attivo e protagonista.
Quest’ultimo è il caso della poesia Presagio di de Robertis, dove il rapporto tra imbarcazione e nocchiero è rovesciato: non sarà la nave, l’ opera morta, a frangersi contro i flutti per prima, ma sarà il nocchiere / uomo dello scandaglio / […] ad aprirsi in squarci / a cedere … per primo.

Valeria Serofilli – Nota di lettura
Già la lirica d’apertura, che contrariamente a quanto accade in molti volumi, non è l’eponima(quella che da il titolo al libro) ma reca il titolo “Presagio”, si manifesta come portavoce dell’incubo diffuso riguardo l’imminente fine del mondo per inondazione, tra l’altro assai rituale in quest’ultimo periodo, per la profezia dei Maya, Recitano alcuni versi di “Presagio”:
Schiume increspate/fremono
in muraglie”
L’io lirico avverte dunque tutta la precarietà, l’incertezza e la transitorietà della condizione terrena, quasi rispecchiando il pensiero di Pascal dell’Esprit de finesse, anch’essa presa di coscienza della limitatezza umana e dell’impossibilità di raggiungere punti fermi, insanabile contraddizione fra il volere e l’ottenere.
Sul versante linguistico la lirica “Presagio”, già poco sopra analizzata, in virtù del similare apparato fonoprosodico sembra richiamare il montaliano “Mareggiare, pallido e assorto” precisamente nei versi:

“(…) la sferza dei venti che scompiglia
drizze di randa ed amantigli
schiume increspate
fremono in muraglie

sono stato bene

un tempo, una volta
ho avuto fantasie migliori
più discutibili
sto attraccato a un caffè,
sbarbato e in avaria,
barca in darsena
senza bandiera

le signorine ancheggiano,
il corso diventa
cruna dell’ago,
né belle né brutte
primi piani croccanti
pungono con distacco.
E’ quasi sera,

non ho fretta, resisto
sulla mia piastrella
a osservare l’infinito
mentre sparisce,
sto per morire,
nessuno me compreso sa
quanto sono stato bene

Più che Allah potè il GRA di Stefano Disegni

L’armata dell’ISIS scelse male l’ora per conquistare Roma. Alle 8,30 rimase imbottigliata sul Raccordo, altezza Settebagni. Non sapevano, i truci guerriglieri di Allah, che a quell’ora ‘a ggente vanno a lavorà. Tra fuori di testa che smadonnavano, stereo a dumìla, moto e motorini che sciamavano de qua e de là (uno col Kawasaki enduro gli passò sul tetto dell’autoblindo) e ambulanze bloccate sulla corsia d’emergenza dal Suv di qualche fìo de ‘na mignotta che ci aveva provato e mo’ stava a litigà coi portantini, i barbuti giustizieri dell’Islam non sapevano che pesci prendere e come imporre il Corano auto per auto, dato che tra una e l’altra non ci passava manco una sogliola in verticale.

Qualcuno di loro sparò in aria, un po’ per intimidire, un po’ per farsi strada. Gli rispose una salva di revolverate da un pullman di tifosi della Curva Sud che videro in loro dei compagni di strada e di lotta e sventolarono lo striscione “C’è un solo capitano”, immediatamente perforato dalle revolverate partite da due o tre macchine di laziali.

In verità i guerriglieri di Allah non sapevano nemmeno perché l’esercito italiano li avesse lasciati arrivare fin là senza opporre resistenza, anzi, facendogli strada. Dopo sei ore di coda sotto il sole, i mezzi dell’armata islamica, guidati da barbuti un po’ in deliquio e coi crampi agli avambracci, saltarono l’uscita e siccome quella dopo era chiusa perché stavano a potà ‘e siepi, si fecero altre tre ore di coda fino al cavalcavia e altre sei in senso inverso, gli ultimi due chilometri sulla corsia d’emergenza tra i vaffanculo di quelli in coda che non li facevano rientrare così ve imparate, li mortacci vostri, finché imboccarono l’uscita giusta e si avviarono alla conquista del simbolo della Cristianità.

Sei blindati sparirono subito in una voragine sull’asfalto della Prenestina (“Mortacci de Marino, ieri c’è sparito un purmino de suore e lui sta a cambià l’acqua ai pesci” commentò er sor Quinto da dentro all’edicola). Altri otto automezzi lasciarono i cingoli sulle doline carsiche che sulla Casilina sfasciavano le sospensioni a residenti e non, per gli scossoni un barbuto che guidava senza cintura ci rimise gli incisivi (“A’ Fidelcastro, fa’ causa ar Comune, po’ esse che ariva quarche sordo ai tu’ nipoti!” gli gridarono da un bar).

Un po’ scossi, i conquistatori venuti dal Levante decisero di fermare la colonna e fare il punto, onde elaborare una strategia di attacco.

Fermare una colonna. A Roma. Dove non c’è parcheggio nemmeno per un monopattino. Sciami di ausiliari del traffico con banda gialla sbucarono anche dai tombini, assetati di sangue e di multe.

La velocità felina con cui infilavano contestazioni sotto i tergicristallo delle autoblindo, sulle motocorazzate e perfino su tre carri armati con invito a presentarsi entro cinque giorni negli uffici della Municipale pena sequestro del mezzo, mandò fuori di testa i miliziani di Allah (“Poracci, nun ce so’ abbituati” diceva la gente intorno), che decisero di ammazzare tutti gli ausiliari, rinunciando subito dopo perché erano troppi, e pure se i passanti si offrivano de da’ ‘na mano, non potevano sprecare tutte quelle munizioni .

Lasciato un altro considerevole numero di mezzi e persone in una voragine a Portonaccio, usata dai romani per fare free-climbing, l’Armata dell’ISIS arrivò finalmente al Lungotevere.

Cioè, quasi, perché ce stava ‘a manifestazzione. Anzi, ‘e manifestazzioni. I Sindacati, I Gay e i Diritti degli Invisibili, che non si capiva se si parlava di Terzo Mondo o di Fantascienza, ma il risultato era lo stesso, per arrivare in centro dovevi passare per Ostia Lido.
Una folta barriera di transenne, pure sull’acqua del fiume, non sia mai qualche cittadino provasse a fregare i vigili col motoscafo, ribloccò la colonna islamica i cui componenti dovettero incazzarsi per fermare i rumeni che volevano lavargli i parabrezza e lucidargli gli obici, furono borseggiati dai Rom, ognuno con accanto l’assistente sociale per il reinserimento, si dovettero fare le foto insieme ai centurioni con l’orologio altrimenti gli tagliavano le gomme e furono costretti a regalare rose rosse al compagno di equipaggio sennò quel cazzo di indiano non se n’annava più.

Le gomme poi gliele fregarono mentre discutevano con quelli di Equitalia che intimavano il pagamento delle sanzioni per superamento di varco attivo da parte di tutta la colonna, ‘na botta. “È l’Inferno come lo descrive il Profeta! Anzi, peggio!” disse Al-Baghdadi ordinando la ritirata. Ma scelsero male l’ora per uscire da Roma. Non sapevano, i guerriglieri di Allah, che a quell’ora, sul Raccordo ce sta er rientro. Dopo undici ore senza fare un metro, assetati, affamati, qualcuno in fin di vita, capirono perché l’esercito italiano li aveva lasciati arrivare fin là.

Avviso ai naviganti

Basterebbe dirlo, magari al termine della riunione dei capi di governo dell’Unione. Avere il pelo sulla lingua per dirlo, perché quello sullo stomaco per farlo è già bello folto. Basterebbe dirlo ai disgraziati morti a centinaia. Ragazzi, guardate. Noi di voi non sappiamo che farcene. E’ vero venite da posti sfigati con Boko Haram, senza acqua, con Ebola, l’Aids e la fame, e orrendi governi di ladri, corrotti e, qualche volta, pure cannibali. Ma noi che abbiamo tutto quello che voi non avete, e non avrete mai, non vogliamo darvene neppure un pezzettino. E’ un nostro diritto. E del resto non sapete fare un cazzo. E non vogliamo spendere soldi per raccogliervi in mare. Quindi dopo, e solo dopo, aver pagato un biglietto che vi garantirebbe almeno una settimana di crociera sulla Concordia, per favore annegate in mare. Ogni tanto, così che la notizia possa in qualche modo spaventare chi aspetta l’imbarco, ma non così spesso da farci venire il rimorso dell’uomo bianco. Che ci abbiamo San Remo e nel week end il campionato. Grazie e buon bagno.

Massimo Rocca, questa mattina su Radio Capital, Contropelo

Àe, tre inediti di Fabio Franzin

perìgeion

Fabio Franzin

Àe
(Ali)

Insieme

Brussa, in Valle Vecchia, 5 gennaio 2015

Passén, in fia indiana, te ‘sto tròdho strent
fra ‘e canèe alte, i só penaci indoràdhi
contro ‘l cel, ninàdhi da ‘sto bel sol
regaeà daa befana, cussì, ae idi de zenàro.

Da l’altana de l’osservatorio si ‘i védea massa
distanti ‘i osèi, ingrumàdhi lavìa tea laguna
ijazhàdha. Ma da qua, ssiti ssiti, i ‘é pì vizhini:
cigni, ànere, madhorini, fòeaghe, crècoe, pitùssi…

tuti a s.ciap a ucàr, sguataràr, far sesti in tondo
te ‘sto spècio ovàe tajià fòra fra i bari dea barena
e ‘a part in onbrìa, penda, opaca, da lastra tórbia.
E mé fémena ‘contàrghe al pìcoeo che i sta là,

tuti insieme, e insieme i se sposta, de continuo,
cussì che te l’aqua smossa el jazh no’ se forme.
Fen cussì anca noàntri, cari mii, ‘nden zo in piazha,
tuti quanti, sten vizhini e bàen in…

View original post 994 altre parole