Indubbiamente Simone Cattaneo coi suoi versi non versi, la terminologia spiccia che ricorda autori come Bukowski e Armitage, o tutto sommato è corrente linguaggio, ha lanciato un sasso nello stagno di molta poesia italiana, cercando di non nascondere la mano. Riuscendo ad amputarsela. Ho memoria di un’edizione di parco Poesia a Riccione, mi sembra nel 2006, in cui per un intero pomeriggio il dibattito, più inutile delle zanzare tigre che ci tormentavano, verteva sull’esistenza o meno nella poesia italiana di una linea adriatica in risposta alla linea lombarda, già da lungo tempo reclusa in Milano a risciacquare versi meticolosi sugli amori di un battito di ciglia consumati nel diaframma di un finestrino d’autobus, o sulla botteguccia di Lorenzo il Meccanico che era in quell’angolo del quartiere negli anni Cinquanta e ora non c’è più. Cattaneo non credo sia stato un autore in perenne scontro frontale col sistema o un aedo degli ultimi. Semplicemente ha preso atto di realtà viste o intraviste trascrivendole. In questo è stato molto più utile di tanta poesia da bottega. Provo a immaginarlo durante un reading, magari in un salotto bene durante il tè della Cinque attaccare con “Non mi importa niente dei bambini del Burchina Faso che muoiono di fame,/non ne voglio sapere delle mine antiuomo,/se si scannassero tutti a vicenda sarei contento./Voglio solo salute,soldi e belle fighe. Giovani belle fighe, è chiaro.” In presenza magari di una Contessa Mazzanti Serbelloni Vien dal Mare o dell’illustre critico redattore capo di una rivista di poesia talmente illustre, ma diffusa in quattro copie, che prima che iniziasse a leggere se lo mangiavano con gli occhi. Pare fosse oltretutto un bel ragazzo. Ha rotto molti schemi, se ne è lasciato travolgere. Come ha osservato giustamente Ivan Pozzoni, non ha scritto roba memorabile, ma ha scritto quel che serviva a rompere per un po’ gli schemi. Magari qualcuno leggendolo gli avrà dato dello scemo, qualcun altro si sarà scandalizzato in nome della poesia, qualcun altro ancora, forse, l’avrà letto davvero. Poi dopo la morte si finisce più o meno tutti sotto formalina e sugli altari, e anche i più analfabeti diventano Letterati.
Archivio mensile:luglio 2014
Storie per adulti
Se ne andò in bianco
lasciando Tezze sul Brenta
al proprio destino
in multiproprietà,
portò poche cose
non aveva molto spazio
nelle mani, giusto l’incipit
e i suoi non chiesero
dove stesse andando.
Nei momenti di crisi
sparire di colpo evita
problemi maggiori,
rende libero chi soppesa
il proprio bilancio
dentro un’aula di giustizia
all’inutile pareggio
alla dea bendata,
preferì una sigaretta.
Inutile inverno,
inutile destino,
forse adesso sta
da un’altra parte, ha un uomo
un collare brillante,
sette teste come i gatti,
dicono abbia perduto i capelli
non abbia più il seno,
o sono solo chiacchiere.
In realtà
non se n’è mai andata,
fa la cameriera
a ogni stagione
cambia l’armadio
non può avere figli,
quando rientra la sera
chiude in fretta la porta
e non da confidenza.
Accento l’ultima O
Accento l’ultima O
a qualche bugia
come alla democrazia
di qua, avanzata sì
che n’è rimasta poca
noi tutti torneremo
dove siamo venuti,
niente e nessuno
può toglierci la pelle,
revocare certe parole
su che tipo di frequenza
le ritroveremo non so,
non so su quale trincea
altrettanti acquitrini
fanti di guerre sconfitte
per tre assalti al giorno,
prima e dopo i pasti
Angela alzerà la gonna
nel distacco completo
di chi scrive da casa
Ricordo di Enzo Bearzot
Il 21 dicembre 2010 Bearzot se ne andò in punta di piedi risvegliando qualche ricordo.
Il primo, quanto fu bello avere 23 anni nell’estate Ottantadue.
Il secondo, Bearzot cocciuto e fortunato, almeno quella volta là.
Bearzot e il suo naso pugilistico-filosofico che da sempre associo all’immagine perduta di Socrate.
Non di Socrates, quello si autoaffondò col Brasile al Sarria, stadio demolito per rimuovere anche il ricordo. Bearzot silenzioso dopo il disastro dell’Ottantasei e mai più visto o sentito, giusto così.
Se hai ragione parla se non ne hai resta zitto, ma almeno i lecca culo ti scansano.
Hanno detto che l’Italia vinse il Mundial perché gli azzurri erano strafatti di carnetina.
Hanno detto, sempre i soliti bene informati, che l’Italia si comprò Camerun e Perù per passare il primo turno.
L’allora presidente federale Federico Sordillo, uomo di specchiata competenza, proveniente dai quadri dirigenziali del Milan, dopo l’ennesimo pareggio, indignato dichiarò che lui, i calciatori azzurri, li avrebbe presi a calci.
La Gazzetta titolò, la nazionale si chiuse nel silenzio stampa, e il Vecio, confortato dall’illuminato parere del Dott. Sordillo tirò dritto per la sua strada, e meno male.
Trasformò una banda di iuventini un po’ logori, uno stopper retrocesso in B col Milan, due mediani nerazzurri da una vita, un quarantenne in forma, un romanista messo in porta dai brasiliani durante una partita di calcio da spiaggia, e qualche giovanotto di belle speranze in un’orchestra senza futuro ma che per sei ore circa suonò musica sotto forma di calcio sublime, e ci portò in cima al mondo. Noi con loro.
Il resto fu molto oleografico, le telecronache di Martellini col suo triplo Campioni del Mondo!
La luna sul Bernabeu rivista così bella soltanto poche altre volte.
Alcuni tifosi italiani allo stadio Sarria perduti nella torcida brasiliana a sventolare il Tricolore; Maradona tartassato da Gentile che si fa espellere come un pollo per un fallo di reazione; i falli di Stielike su Oriali, i falli di Oriali su Stielike, i falli di Stielike sul resto dell’umanità, l’arbitro Coelho che solleva il pallone, il travaso di bile di Joao Havelange presidente Fifa; Pertini, Zoff, Bearzot e Causio a farsi uno scopone sull’aereo del ritorno con la Coppa d’oro in mezzo al tavolo. L’omicidio del Generale Dalla Chiesa, giusto per tenerci coi piedi per terra.
Io quel pomeriggio di Italia Brasile (pronostico 120 a 0 per il Brasile) mi ero imbucato nella hall di un albergo di lusso all’Argentario e baciai, dopo il 3-2, una sconosciuta mai più rivista.
Il Vecio mancava già da molto, da quando se ne è andato manca un poco più.